
Il sole si riflette sui vetri del ponte Szabadság, eppure l’aria è densa, ferma. Da ore i militanti del partito di estrema destra Patria Nostra hanno bloccato la carreggiata con le auto, proprio lì dove avrebbe dovuto passare il Pride. Le bandiere arcobaleno sventolano dall’altro lato del fiume, a centinaia. Non c’è musica, non ancora. Solo una lunga attesa, come in quei momenti in cui la paura e la determinazione si stringono la mano. E, in lontananza, il primo tamburo.
Non è solo una marcia. Non è nemmeno solo una protesta. È una dichiarazione di identità collettiva in un Paese in cui lo Stato, da anni, nega legittimità pubblica all’esistenza di alcune persone. Quando il corteo è partito, tra il municipio e i ponti assediati, migliaia di manifestanti hanno cantato, ballato, camminato in silenzio. Hanno occupato lo spazio che la legge voleva togliergli. E l’hanno fatto sotto lo sguardo immobile della polizia, che il governo aveva esortato a identificare e perseguire chiunque violasse il divieto.

Il divieto del Pride e la sfida alla legge
Il governo ungherese aveva vietato il Pride 2025 con una legge approvata in marzo: manifestazioni che “promuovono o mostrano deviazioni rispetto al sesso di nascita, il cambio di sesso o l’omosessualità” sono da considerarsi illegali in pubblico. Una formulazione ampia, che consente alla polizia di sciogliere i raduni, multare i presenti e denunciare gli organizzatori. Per il premier Viktor Orbán, è “una misura di protezione dell’infanzia”. Per i manifestanti, è “una legge fascista”.
Il sindaco di Budapest, Gergely Karácsony, ha provato ad aggirare il divieto dichiarando la marcia un evento municipale. Ma il capo della polizia ha confermato il bando, e la Corte suprema ungherese si è rifiutata di valutare la costituzionalità della norma o di coinvolgere la Corte di giustizia UE. Di fronte a questa impasse, gli organizzatori hanno scelto la disobbedienza civile: “Non chiediamo permesso. Marceremo comunque”.

Dalla Costituzione alle leggi anti-trans: una deriva decennale
Il divieto del Pride 2025 non è un caso isolato, ma l’ultimo capitolo di un’evoluzione legislativa iniziata con la riforma costituzionale del 2012. La nuova Costituzione ungherese definisce il matrimonio solo come unione tra uomo e donna. Da allora, il governo Orbán ha approvato una serie di leggi sempre più restrittive:
Nel 2020 ha vietato il cambio di sesso anagrafico per le persone trans, ancorando il genere all’atto di nascita. Nello stesso anno ha escluso le coppie omosessuali dall’adozione. Nel 2021, la famigerata “legge anti-propaganda LGBTQ+” ha proibito qualsiasi contenuto che mostri omosessualità o identità di genere non binaria ai minori. E nel 2025, con il quindicesimo emendamento costituzionale, l’Ungheria ha sancito che il diritto del bambino “prevale su tutti gli altri diritti”, limitando libertà di parola, assemblea e manifestazione.

Bruxelles contro Budapest: diritti civili e scontro istituzionale
Le istituzioni europee hanno reagito duramente. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha definito la legge del 2021 “una vergogna”. La Commissione UE ha avviato una procedura d’infrazione, poi portata alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che si è espressa in senso contrario alle leggi ungheresi. L’Avvocato generale della Corte ha scritto che il governo Orbán si è allontanato “dal modello di democrazia costituzionale”.