
La recente operazione “Martello di Mezzanotte” ha sollevato un velo di incertezza sul reale impatto sull’ambizioso programma nucleare iraniano. Nonostante le dichiarazioni trionfalistiche e le immagini di distruzione superficiale, emergono dettagli cruciali che ridimensionano l’entità del successo.
Al centro del dibattito, la mancata distruzione di siti chiave e l’interrogativo persistente sulla sorte di ingenti quantità di uranio arricchito.
La profondità inaccessibile di Isfahan
Un’indiscrezione di vasta portata, trapelata al Congresso e poi rivelata dalla CNN, ha gettato nuova luce sulle limitazioni operative dell’US Air Force. Il Capo di Stato Maggiore, Dan Caine, avrebbe comunicato in un briefing a porte chiuse che le tanto decantate “super bombe” (le GBU-57 in dotazione ai B-2 Spirit) non sono state impiegate contro il sito di Isfahan. La ragione? I laboratori iraniani sono ospitati in rifugi sotterranei di tale profondità da rendersi irraggiungibili da uno strike convenzionale. Questa rivelazione solleva un quesito fondamentale: cosa detiene ancora l’Iran per proseguire il suo programma nucleare?
L’operazione “Martello di Mezzanotte” si è concentrata principalmente sulle “montagne” di Fordow e Natanz, colpite con le super bombe, mentre Isfahan è stato bersaglio di una trentina di missili cruise lanciati da un sottomarino. Sebbene le incursioni, unite a quelle dell’aviazione israeliana, abbiano causato distruzioni visibili in superficie, le conseguenze “interne” rimangono oggetto di valutazioni non definitive. L’interrogativo più pressante riguarda circa 400 chilogrammi di uranio arricchito che sarebbero stati trasferiti prima dell’attacco. Non è stato escluso che questo materiale sia finito nel bunker di Isfahan o in quello di Natanz, entrambi impianti parzialmente sotterranei. Le comunicazioni del generale Caine rappresentano una risposta chiara al perché l’operazione non abbia colpito in modo più decisivo tutte le installazioni sospettate di nascondere elementi cruciali per il progetto atomico iraniano.

Verità sfuggenti e ritardi incerti
Le interpretazioni sull’efficacia dell’attacco sono state elastiche e contraddittorie, riflettendo anche gli scontri politici interni. Se da un lato Donald Trump ha parlato di “successo totale” e l’AIEA ha confermato “danni sostanziali”, le analisi preliminari dell’intelligence militare sono apparse più prudenti, per poi essere corrette dalla CIA. La stima sul rallentamento del programma iraniano varia da pochi mesi a tre anni, una forbice temporale che evidenzia l’incertezza e la complessità delle valutazioni.
A complicare ulteriormente il quadro, nuove foto satellitari di Isfahan mostrano mezzi al lavoro davanti all’ingresso di un paio di tunnel, suggerendo che gli iraniani stiano rimuovendo della terra che ostruiva gli accessi. Secondo Jeffrey Lewis, esperto del Middlebury Institute, è possibile che abbiano già accesso all’entrata di un tunnel, mentre altri due sembrerebbero ancora “sigillati”. Rafael Grossi, direttore dell’Ente Internazionale per l’Energia Atomica, ha ribadito un concetto chiave: al momento non è possibile affermare con certezza se una quantità considerevole di uranio arricchito sia stata spostata o invece sia andata distrutta. Questa incertezza sottolinea la capacità strategica dell’Iran di prevedere e contrastare le mosse avversarie, dedicando risorse significative alla protezione del proprio settore nucleare. La vera sfida, quindi, non risiede solo nella forza distruttiva, ma nella capacità di penetrare una rete di difese e nascondigli costruita con meticolosa previsione. Cosa riserverà il futuro per il programma nucleare iraniano in questo complesso scenario?