
Il sentiero si addentra tra gli alberi, in salita. Silenzio, poi spunta una struttura che ha l’aspetto di un cantiere più che di un’abitazione. Un uomo alto e magro esce dalla porta, sorride, e con un inglese gentile indica due sedie davanti a un ventilatore: «Welcome, there please». È lui: Frederik, il padre dei cosiddetti “bambini fantasma”, come li hanno ribattezzati i media dopo la scoperta che i suoi due figli non esistevano, per lo Stato italiano.
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Una storia che ha dell’incredibile. Nessuna iscrizione all’anagrafe, nessuna vaccinazione, nessun medico, nessuna scuola. Due bambini completamente sconosciuti alle istituzioni italiane. Il loro caso è venuto alla luce solo in aprile, dopo un’alluvione che ha travolto l’area dove vivevano, costringendo i soccorsi a intervenire. Da quel momento, la famiglia è finita sotto la lente della magistratura.
Il cascinale dove tutto è avvenuto si trova a Lauriano, una tranquilla località tra le colline del Torinese. Frederik, 54 anni, olandese, si definisce artista e “costruttore di libertà”. In un italiano stentato ma volenteroso, e aiutandosi con il traduttore sul cellulare, racconta la sua versione: «Abbiamo acquistato il terreno tre anni fa, ci stavamo trasferendo dalla Germania. I bambini hanno sempre studiato, in inglese e italiano, con metodi online. Lo so, avremmo dovuto segnalarlo al Comune, ma mia moglie è malata e il tempo è volato».
La Procura per i Minorenni di Torino, però, ha ritenuto la situazione inadeguata. Secondo l’inchiesta, i minori vivevano in un isolamento forzato, in condizioni di trascuratezza e privi degli stimoli fondamentali. «Abbiamo fatto ricorso per l’apertura della procedura di adottabilità — spiega la procuratrice Emma Avezzù —. Al momento i bambini sono stati collocati in una comunità protetta». Ora il Tribunale dovrà valutare l’effettivo rapporto con i genitori.

Frederik si difende con decisione. Mostra foto, video, ricordi. La casa, dentro, è moderna: cucina, televisore, camerette con letti ordinati. «Qui si gioca, si va al mare, d’inverno a sciare. Sono felici», dice mentre mostra due paia di sci. Il giardino è un misto di progetti in corso: un forno per la pizza, un capanno per i polli, impalcature e attrezzi da falegname. «Ho energia mia, batterie al litio, acqua mia. Sono indipendente».
Alla domanda sul suo lavoro, risponde: «Artista visivo, saldatore di alluminio, diplomato con il massimo dei voti». Sottolinea di non avere problemi economici: «Abbiamo casa in Germania, proprietà in Olanda, vivo degli affitti. Ho speso altri 100 mila euro per ristrutturare qui. Ai miei figli non manca niente». E ci tiene a precisare: «Non siamo selvaggi. Non sono un eremita né un paranoico. Solo uno che ama fare le cose da sé, con la sua famiglia».
Resta l’immagine discussa dei pannolini, che ha alimentato dubbi sullo sviluppo dei bambini. Frederik si giustifica: «Durante l’evacuazione ho dimenticato la loro biancheria, e all’asilo hanno usato i pannolini». Vede i suoi figli ogni due settimane, ma attende con ansia una svolta: «Non sono l’uomo nero. Amo i miei figli, e combatterò finché non torneranno con noi. L’Italia è un Paese meraviglioso, ma questa volta ha esagerato».
Quando saluta, Frederik ha gli occhi lucidi, lo sguardo perso nel bosco. La casa resta lì, sospesa tra cantiere e sogno, tra libertà alternativa e legalità sospesa. In attesa che la giustizia dica se si tratta di una scelta estrema ma legittima, o di un’infanzia sottratta a ciò che dovrebbe essere un diritto universale: la tutela, la scuola, la normalità.