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La bandiera europea, tra mito e progetto: cosa significa davvero il simbolo dell’Unione

Pubblicato: 30/06/2025 10:30

La riconosci ovunque, anche senza pensarci. La vedi sventolare fuori dai palazzi istituzionali, stampata sui libretti universitari, proiettata nei raduni politici, spesso affiancata a quella nazionale. Dodici stelle dorate disposte in cerchio, su uno sfondo blu intenso: essenziale, solenne, apparentemente semplice. Ma cosa significa davvero la bandiera dell’Unione europea? E perché è diventata un simbolo così potente, al punto da resistere ai cambiamenti dei trattati e all’erosione della fiducia?

Non nasce con l’Unione, né rappresenta gli Stati membri. La bandiera europea è più antica dell’Unione stessa, e ha un’origine culturale più ampia e simbolica di quanto si pensi. Rappresenta un’idea di Europa che non coincide con le sue istituzioni, ma che ne costituisce il fondamento visivo e identitario.

Una nascita pre-europea

Viene adottata nel 1955 dal Consiglio d’Europa, ben prima dei Trattati di Roma e della nascita della Comunità economica europea. In quel momento storico, l’obiettivo non è ancora l’integrazione politica, ma la ricostruzione di un’identità condivisa dopo la guerra. Serve un simbolo che tenga insieme culture, lingue, religioni, sistemi giuridici. Una sintesi. Il blu e l’oro vengono scelti per la loro forza evocativa: il cielo e la luce, la pace e l’armonia.

Le stelle sono dodici, e da subito la scelta appare carica di significati. Non c’entrano gli Stati membri: all’epoca, quelli del Consiglio d’Europa erano solo otto. Il dodici viene considerato un numero “perfetto”, simbolo di compimento e stabilità. Ricorre nella Bibbia, nell’astrologia, nell’antichità classica, nei cicli naturali e nei calendari. È un numero chiuso ma universale, non divisibile, non contingente.

Un simbolo laico e aperto

Il disegno fu realizzato da Arsène Heitz e Paul Lévy. Il primo, fervente cattolico, dichiarò più tardi di essersi ispirato a un passo dell’Apocalisse: “una donna vestita di sole, con dodici stelle sul capo”. Una rappresentazione tradizionale della Vergine Maria, diffusa in tutta Europa. Ma questa lettura non fu mai ufficializzata. La bandiera fu pensata come simbolo laico, inclusivo, capace di unire senza imporre.

Nel 1986, quella stessa bandiera venne adottata anche dalla Comunità europea. Da allora, è diventata il segno visivo della costruzione comunitaria: visibile su documenti, targhe, conferenze stampa, perfino sulle banconote. Ma non è citata nei trattati. Non è un “simbolo ufficiale” nel senso tecnico-giuridico. È un emblema condiviso, che vive di consuetudine e riconoscimento sociale.

Non rappresenta gli Stati

Un altro elemento spesso frainteso è la relazione tra le dodici stelle e il numero dei Paesi membri. Anche con l’ingresso di nuovi Stati — oggi sono 27 — il numero delle stelle è rimasto invariato. Nessuna modifica, nessuna stella aggiunta, nessuna stella tolta con la Brexit. Perché non rappresentano le nazioni: rappresentano i principi fondanti, l’ideale di unità, la tensione verso qualcosa di compiuto.

Le stelle sono disposte in cerchio, senza inizio e senza fine. Anche questa è una scelta simbolica: il cerchio evoca parità, coesione, eternità. È un richiamo visivo all’idea di comunità che si tiene insieme senza gerarchie, senza un centro dominante.

Una bandiera che resiste

Oggi la bandiera europea è un simbolo potente anche fuori dalle istituzioni. Viene brandita nelle manifestazioni per i diritti, nei cortei studenteschi, nelle piazze sotto assedio. È il vessillo di chi difende l’Europa dei valori, non solo quella dei regolamenti. E per questo è diventata anche un bersaglio: attaccata dai sovranisti, rimossa da alcune aule parlamentari, derisa in certi ambienti politici.

Ma proprio la sua ambiguità simbolica le permette di resistere. Non è una bandiera “di potere”, non impone una sovranità. Propone un orizzonte comune. La sua forza è tutta nella sua forma: essenziale, armonica, non aggressiva. Come se l’Europa, per farsi amare, avesse scelto di farsi riconoscere attraverso il linguaggio dei segni, non delle imposizioni.

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