
La decisione di Volodymyr Zelensky di ritirare l’Ucraina dalla Convenzione di Ottawa segna un passaggio simbolico e sostanziale verso una fase ancora più brutale del conflitto. Il trattato, firmato da 133 Paesi nel 1997 (tra cui non figurano Russia, Cina e Stati Uniti), vieta l’uso, la produzione, lo stoccaggio e il trasferimento delle mine antiuomo.
Con il ritiro unilaterale, Kiev rinuncia formalmente a uno degli strumenti di diritto umanitario più condivisi dalla comunità internazionale. Secondo gli esperti, si tratta di un punto di non ritorno che potrebbe trasformare definitivamente la guerra in Ucraina in un conflitto senza più limiti né regole.
“Mine antiuomo? Segno che i civili sono diventati bersaglio”
A lanciare l’allarme è Vito Alfieri Fontana, ex produttore italiano di mine, oggi sminatore e attivista per la pace. “Quando in un conflitto tornano le mine antiuomo”, spiega, “è chiaro che siamo oltre l’escalation: è guerra totale, significa che non ci si preoccupa più di salvare i civili. Case, scuole, ospedali diventano bersagli collaterali”.
Alfieri Fontana, che negli anni ’80 costruiva milioni di ordigni per la Tecnovar Italiana di Bari, ha poi cambiato radicalmente vita, diventando sminatore nei Balcani grazie anche all’influenza della giornalista Nicoletta Dentico. Secondo lui, la scelta di Zelensky ha un valore simbolico devastante.
“Nel conflitto tra Iran e Iraq, e poi in Bosnia, le mine venivano usate per dividere i fronti anche nei periodi di tregua. Il risultato? Campi minati enormi, mai bonificati, con un impatto disastroso su interi territori per decenni“.

“Errore strategico e morale: con le mine non si vince”
Per Nicoletta Dentico, che guidò la campagna italiana per la messa al bando delle mine, la scelta del governo ucraino è non solo moralmente discutibile, ma anche strategicamente sbagliata. “Non si sono mai vinte guerre con le mine antiuomo”, spiega, “lo dice il rapporto della Croce Rossa Internazionale. Sono armi che restano attive per anni, anche quando il conflitto è finito. Il loro unico effetto certo è quello di colpire i civili“.
L’attivista denuncia inoltre un pericoloso scollamento tra politica e diplomazia: “Oggi si afferma una logica senza regole, dettata da tecnologia, potere e denaro. La decisione di Kiev nasce probabilmente da pressioni interne all’apparato militare, ma segna un’involuzione grave”. Il fatto che il ritiro sia avvenuto durante il conflitto, violando l’articolo 20 della Convenzione, è un’ulteriore aggravante.
Le conseguenze: escalation, rischio civile, delegittimazione internazionale
Con l’Ucraina che abbandona il trattato, il rischio umanitario si moltiplica: aumentano le possibilità di danni permanenti al territorio, di lesioni ai civili e di delegittimazione agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Per un Paese che si è sempre presentato come vittima e baluardo del diritto internazionale, il ritorno a una pratica bellica vietata in gran parte del mondo può aprire un fronte diplomatico complicato.
Se per Mosca la notizia rappresenta un vantaggio mediatico da sfruttare, per Kiev è una scommessa pericolosa, figlia della disperazione militare e del timore di non riuscire più a difendere i confini senza ricorrere a ogni mezzo possibile. Ma, come ricordano Alfieri Fontana e Dentico, le mine non difendono: devastano, anche dopo la guerra. E segnano, forse per sempre, il terreno su cui si è combattuto.