
Nel cuore di un Afghanistan dominato dai talebani, dove alle donne è vietato parlare in pubblico e vige un vero e proprio apartheid di genere, la Russia ha deciso di compiere un passo che cambierà gli equilibri regionali: riconoscere ufficialmente il regime di Kabul. La decisione, comunicata giovedì dall’ambasciatore russo Dmitry Zhirnov al ministro degli Esteri afghano Amir Khan Muttaqi, corona un processo avviato nel 2021, quando Mosca fu tra i pochissimi governi a mantenere l’ambasciata aperta durante il caotico ritiro americano.
Per la diplomazia russa, si tratta di una scelta “coraggiosa”, come l’ha definita lo stesso Muttaqi, che apre una “nuova fase di relazioni positive”. Mosca punta a una cooperazione economica strutturata, in particolare su energia, agricoltura, trasporti e infrastrutture, dopo l’accordo siglato nel 2022 per la fornitura di petrolio, gas e grano. Il ministero degli Esteri russo ha parlato di una “partnership a pieno titolo”, evidenziando anche un impegno nella lotta al narcotraffico e al terrorismo. Già un anno fa, Vladimir Putin aveva definito i talebani “alleati nella lotta all’estremismo”.

La mossa di Mosca è stata ben accolta dalla Cina, che da tempo mantiene relazioni aperte con l’Emirato Islamico. “L’Afghanistan non deve essere escluso dalla comunità internazionale”, ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ribadendo la volontà di Pechino di rafforzare i legami con il popolo afghano. Tra gli altri Paesi che intrattengono rapporti diplomatici con Kabul ci sono anche Pakistan, Uzbekistan e Emirati Arabi Uniti.
Per i talebani, questo riconoscimento arriva in un momento cruciale. L’isolamento internazionale ha messo in ginocchio un’economia già fragile, con il 90% della popolazione sotto la soglia di povertà. Gli aiuti umanitari sono stati drasticamente ridotti a causa delle politiche repressive del regime. Le donne, in particolare, sono escluse dalla scuola secondaria, dal lavoro, e persino dall’accesso a parchi pubblici, con una legislazione sempre più oppressiva. Chi si sposta oltre i 70 km deve farlo accompagnata da un uomo.
A fuggire sono stati in tantissimi. Ma per molti l’unica via è quella dei rimpatri forzati. In particolare, Iran e Pakistan hanno avviato campagne di deportazione degli afghani irregolari. Teheran, secondo l’UNHCR, ha rimpatriato oltre 30.000 persone al giorno durante la guerra tra Israele e Hamas. Le autorità iraniane parlano di “ritorni in patria”, ma sul campo si assiste a una vera e propria caccia ai profughi, molti dei quali sono ex collaboratori del governo filo-occidentale.

La stessa sorte tocca a chi sperava di rifarsi una vita negli Stati Uniti. Dopo la stretta migratoria di Donald Trump, che ha vietato l’ingresso ai cittadini di 12 Paesi tra cui l’Afghanistan, i piani di reinsediamento sono stati bloccati. Nel frattempo, il premier talebano Mohammad Hassan Akhund ha annunciato una presunta amnistia generale per chi decide di rientrare. Una promessa che, sorprendentemente, sembra aver convinto anche il governo tedesco, intenzionato a negoziare con i talebani per il rimpatrio degli espulsi.
Quel che è certo è che a tornare si trova un Paese sull’orlo del collasso. Le testimonianze raccolte dall’UNHCR parlano di famiglie esauste e affamate, con donne e bambine terrorizzate all’idea di tornare in un luogo dove non hanno più diritti. Secondo il rappresentante Arafat Jamal, si tratta di una vera e propria “tempesta perfetta”, mentre gli aiuti internazionali continuano a scarseggiare: meno di un quarto dei fondi necessari è stato raccolto nel 2024.
Eppure, in mezzo al disastro, il regime guarda avanti. O almeno ci prova. L’ultima scommessa dei talebani si chiama turismo. Secondo il viceministro Qudratullah Jamal, l’Afghanistan è pronto ad accogliere visitatori stranieri, con corsi di formazione per futuri operatori (rigorosamente maschi) e un codice comportamentale per le turiste: velo obbligatorio, ma “niente paura”. Un progetto ambizioso – o surreale – in un Paese dove alle donne non è concesso parlare, e in cui il mondo sembra aver girato lo sguardo altrove.