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Manuel ucciso per le cuffie, lo sfogo della mamma: “Cosa farei al giudice!”

Pubblicato: 04/07/2025 08:36
Manuel Mastrapasqua mamma giudice

Nel silenzio di una giornata sospesa, Angela, inserviente in una casa di riposo di Binasco, ha scelto di non presentarsi al lavoro. È rimasta nella sua casa a Rozzano, travolta dalla valanga emotiva che ha seguito la condanna a 27 anni di carcere per Daniele Rezza, l’uomo che ha ucciso suo figlio Manuel Mastrapasqua per rapinargli una cuffietta da 14 euro. Una sentenza attesa, forse temuta, che non ha portato pace ma solo un lieve sollievo, fragile come la fiducia nella giustizia italiana.
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Una sentenza giusta, ma con dubbi sul futuro

«Sono disperata e distrutta come tutti i giorni», dice al Corriere della Sera Angela con voce ferma, ma lacerata dal dolore. Ritiene che la condanna sia giusta, e ammette che l’ha in parte aiutata a sopportare il peso della perdita. Eppure, quel “forse” che accompagna ogni frase, tradisce l’inquietudine di una madre che ha visto troppo spesso la pena svanire nel tempo, inghiottita da sconti e benefici. «Sarò più serena solo quando avrò la certezza che la pena resta tale».

L’assenza di Manuel è un vuoto costante, un’assenza che lei cerca di colmare parlando con lui ogni giorno, come se fosse ancora presente: «Ogni secondo è nella mia mente. Gli dico quello che penso e quello che devo fare. Gli ho detto che non mi fermerò».

Lo sconcerto per la richiesta di 20 anni

Uno dei momenti più duri è arrivato quando il pubblico ministero ha chiesto 20 anni di reclusione. «È stato un colpo. Ero incredula», racconta Angela. «Ho chiesto a mio figlio Michael se fosse uno scherzo. Ho pensato che non stava facendo giustizia». In aula aveva consegnato una lettera ai giudici, per raccontare chi era suo figlio, un gesto che oggi rivendica con dignità: «Non so quanto possa aver inciso, ma sono contenta di averla scritta».

Manuel, un figlio buono e indipendente

Parlare di Manuel Mastrapasqua è come tornare alla luce per Angela. La voce si addolcisce mentre lo descrive come un ragazzo curioso, gentile, riservato. Amava leggere, informarsi, eccelleva a scuola. Aveva rinunciato all’università per lavorare e contribuire alle spese, deciso a non pesare sulla madre. «Non voleva chiedermi soldi, voleva essere indipendente».

Lui stesso le aveva fatto scaricare un’app per farle sapere dove si trovava. «Per una madre un figlio è sempre un bambino», sorride tristemente Angela. E aggiunge: «Era davvero buono, troppo. Non vedeva la cattiveria negli altri. Quella notte ha incontrato sulla sua strada un essere cattivo e malvagio».

La dignità contro ogni giustificazione sociale

Durante il processo, la difesa ha sottolineato il contesto di disagio familiare in cui è cresciuto Rezza, a Rozzano. Ma Angela respinge con decisione ogni tentativo di giustificazione sociale: «Anche i miei figli sono cresciuti a Rozzano, ma vanno a lavorare per essere autosufficienti. Non rapinano, non uccidono». La sua famiglia ha affrontato il dolore: sette anni fa hanno perso il padre, ma hanno continuato a lottare. «Noi dovremmo essere i disagiati, visto che abitiamo in una casa popolare. Non loro, che stanno in una abitazione privata».

Uno sguardo alla presidente del tribunale

Angela avrebbe voluto stringere la mano alla presidente del collegio giudicante, Antonella Bertoja. In aula, per un istante, i loro sguardi si sono incrociati. «Mi è sembrato di vederla commossa, che capisse», ricorda. Un momento silenzioso, ma carico di significato.

Nessuna pietà per chi non chiede perdono

Nel processo, Daniele Rezza e i suoi genitori non hanno mai chiesto scusa. Ma Angela non avrebbe mai voluto quelle parole: «Per me lui non doveva stare neanche in aula. Non lo avrei voluto e non lo vorrò mai». Parole nette, senza spazio per la retorica o per la mediazione. Solo il dolore e la giustizia, quella vera, che non si misura in attenuanti ma nella verità dei fatti.

Una tragedia che non avrà mai fine

Angela è consapevole che nulla potrà riportarle Manuel. Le resta il suo ricordo, i suoi sguardi, il modo in cui parlava. «Io lo chiamavo il “professore”, per come parlava». E a chi le chiede se mai riuscirà a mettere un punto, una fine alla tragedia, risponde con la forza della verità: «È ovvio che per me non ci sarà mai una fine. Ormai la mia vita è e resterà questa. Manuel mi mancherà per sempre».

Nella sua voce non c’è odio, ma una fermezza che scava a fondo, tra le pieghe di una ferita che non si rimargina. La giustizia ha fatto il suo corso, ma per una madre la condanna non cancella l’assenza, non restituisce gli sguardi, le parole, le risate. E forse, in quella ferita aperta, c’è la più profonda verità di questa storia: l’amore che resta, anche quando tutto il resto è stato portato via.

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