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“Cosa mi manca davvero?”. Cobolli, quella dedica speciale a Edoardo Bove: parole che commuovono

Pubblicato: 06/07/2025 09:33

“Mi dispiace che Edoardo non stia qui quest’anno”, ha detto Flavio Cobolli con un filo di voce, nel momento più alto della sua carriera. Era sull’erba sacra di Wimbledon, appena approdato agli ottavi di finale. Gli occhi lucidi, il sorriso trattenuto, e poi quella frase. Un’assenza pesava più di tutto il resto: Edoardo Bove non era lì. In quel campo perfetto, dove ogni gesto è cerimonia e ogni parola pesa, Cobolli ha scelto di ricordare l’amico di sempre. Quello che conosce da quando tutto era solo un gioco.

Bove e Cobolli sono amici da una vita. Entrambi hanno militato nelle giovanili della Roma: Edoardo ha proseguito con il calcio, Flavio ha lasciato quel mondo per inseguire il tennis. Ma non si sono mai persi. Da ragazzini correvano negli stessi spogliatoi, oggi si inseguono a distanza, ma con la stessa energia di allora. Un legame nato nei giorni senza telecamere, quando bastavano una palla e due battute per sentirsi invincibili.

Un’amicizia che attraversa gli sport

L’anno scorso, a Wimbledon, Bove c’era. Portò anche Nive, il suo cane, una creatura dolce e silenziosa che diventò in pochi giorni la mascotte non ufficiale del torneo. Stavano insieme, condividevano tutto, come sempre. Bove tifava per Flavio da bordo campo, Nive dormiva tra le gambe con lo stesso sguardo sereno di chi sa che il suo posto è lì, accanto. Quel piccolo trio sembrava una squadra alternativa, fatta di passato condiviso e futuro intrecciato.

Ma quest’anno no. E quella mancanza, Flavio l’ha sentita in ogni colpo. La vittoria, pur enorme, gli è sembrata incompleta. In mezzo alle congratulazioni e agli applausi, lui ha scelto di fermarsi un attimo e pronunciare quella frase. Poche parole che portavano dentro tutto: l’infanzia, la lealtà, la paura.

Il giorno in cui il tempo si è fermato

Era il primo dicembre. Edoardo stava giocando in Serie A, quando è crollato in campo. Un malore improvviso, un silenzio angosciante, la corsa in ospedale. Flavio ha raccontato che in quel momento ha smesso di pensare a tutto il resto. Non c’erano allenamenti, non c’erano tornei: c’era solo l’ansia che accompagna chi aspetta notizie dall’altra parte del telefono. E poi l’attesa, il bisogno di esserci, il viaggio in ospedale. Come si fa con un fratello.

Nei giorni successivi Bove è migliorato. È uscito dal pericolo, lentamente. E da quel momento i due si sentono ogni giorno. Anche solo per un messaggio, anche solo per un “come stai?”. Non è una promessa detta a voce. È un’abitudine nuova. È un modo per dirsi che ci si è ancora. E che si continuerà a esserci.

Una mascotte, una memoria, un posto libero

A Wimbledon Nive non c’era. E anche questo ha pesato. Quel cane silenzioso era diventato un simbolo, un’estensione dell’amicizia, qualcosa di innocente e profondo. Vederlo lì lo scorso anno era stato come vedere tutto il loro passato materializzarsi ai bordi del campo. Quest’anno, senza Edoardo e senza Nive, qualcosa è mancato. E Cobolli lo ha detto, senza enfasi, ma con quella sincerità che rompe il protocollo.

“Mi dispiace che Edoardo non stia qui quest’anno” non è solo un modo per rendere omaggio a un amico. È il modo in cui un ragazzo racconta da dove viene. E quanto conti, anche nella gloria, non dimenticare il punto di partenza. Anzi, portarselo dentro.

Il campo più formale del mondo, e la frase più vera

Wimbledon è il luogo della compostezza. Della ritualità, del bianco obbligatorio, dei colpi misurati. Ma ieri, tra i millimetri perfetti del Centre Court, è andata in scena una confessione. Quella di un tennista che, nel giorno più importante della sua carriera, non ha voluto celebrare solo se stesso. Ma ha scelto di dire grazie, con una nota malinconica, a chi non poteva esserci.

Cobolli non è solo un atleta in crescita. È anche un ragazzo che sa cosa vuol dire portare qualcuno con sé, anche se lontano. In un tennis fatto di cifre e ranking, la sua frase è sembrata fuori posto. Ed è proprio per questo che resterà. Come una dedica a bassa voce. Come una verità che vale più di un trofeo.

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