
Certe persone sembrano appartenere ai luoghi che attraversano, come se ne fossero scolpite dentro. Persone che assorbono la complessità del mondo, la respirano e la restituiscono con parole misurate. Non gridate, non semplificate. In un’epoca dove l’informazione corre spesso troppo veloce, è stato un cronista capace di rallentare, osservare, decifrare. Aveva quello sguardo allenato a vedere dietro i fatti, dietro le notizie, dove si nascondono le cause e le contraddizioni più profonde.
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Amava i dettagli, le sfumature, i silenzi. Nel suo modo di raccontare, il giornalismo tornava ad avere senso come strumento di comprensione e non come palcoscenico. Lo stile era asciutto, ma mai freddo. Lo guidava una calma intellettuale che non rinunciava all’emozione, anzi la usava per andare più a fondo. Come ha scritto lui stesso, raccontare il mondo significava «aprire una finestra su una realtà complicata». E per tutta la sua carriera, quella finestra l’ha spalancata con coraggio e disciplina.

Il mestiere di cronista come impegno civile
Alberto Stabile è stato una delle firme storiche di Repubblica, sin dalla sua fondazione. Nato professionalmente a Palermo, poi a Roma come inviato speciale, ha raccontato l’Italia con occhio vigile e rigore. Ma è nel ruolo di corrispondente estero che ha lasciato il segno più profondo, seguendo in prima persona alcuni dei passaggi più delicati della storia contemporanea. Dalla Russia post-sovietica alla primavera araba, dal conflitto israelo-palestinese alle guerre in Libano e Siria, Stabile ha viaggiato e scritto con una bussola ben precisa: raccontare senza giudicare, ma senza mai arretrare davanti alla verità.
Nei suoi reportage di guerra e nei suoi articoli di politica estera emergeva sempre una straordinaria capacità di sintesi e analisi. Ogni parola era il frutto di un’informazione verificata, ogni osservazione nasceva dal confronto diretto con le fonti. La sua era una scrittura sobria, elegante, lontana da qualsiasi enfasi. In tempi in cui il sensazionalismo invade i titoli e svuota i contenuti, lui resisteva con il passo lungo del giornalismo serio.
Il racconto del Medio Oriente dal cuore dell’American Colony
La parte più lunga e profonda della sua attività si è svolta nel Vicino Oriente. A Gerusalemme, nel Cairo, a Beirut, a Damasco, ha seguito in modo instancabile il processo di pace tra Israele e Palestina, raccontandone speranze, rotture, illusioni. Dall’avvio negli anni Novanta fino al tragico attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e alla nuova guerra in Gaza, Stabile è rimasto una delle voci più autorevoli nel raccontare un conflitto che ha diviso coscienze e territori.
Il suo punto d’osservazione privilegiato era l’American Colony Hotel di Gerusalemme. Un luogo carico di storia, teatro di incontri tra diplomatici, giornalisti, spie, leader israeliani e negoziatori palestinesi. Quel patio con la fontanella e i tavolini di ferro battuto era diventato per lui una redazione all’aria aperta, una postazione strategica da cui leggere i segni della storia. Ed è lì che ha ambientato anche il suo ultimo libro, Il giardino e la cenere, pubblicato nel 2024 da Sellerio, che ha definito con lucidità e poesia “una finestra spalancata su una realtà complicata”.
Un’eredità fatta di rigore, sobrietà e umanità
Lo stile di Alberto Stabile era inconfondibile. Nei testi, nella voce, nei gesti. Sapeva essere fermo ma mai arrogante, appassionato ma mai ideologico. Era un uomo di misura e sostanza. Il suo giornalismo era radicato nella cultura del dubbio, nell’onestà intellettuale, nella necessità di andare oltre le apparenze. Non cercava eroi né capri espiatori: cercava di capire. E poi, con grande precisione, raccontare.
Nel suo libro, sottotitolato “Israele e Palestina nel racconto di un albergo leggendario”, la narrazione personale si intreccia con quella collettiva. Non è solo una cronaca né un’autobiografia: è un modo di guardare il mondo. Un modo che ha saputo resistere al cinismo e all’indifferenza. Dietro ogni sua parola c’era un’etica, un metodo, e soprattutto un profondo rispetto per il lettore.

Il ricordo nella sua Sicilia e tra i colleghi
Alberto Stabile si è spento a 78 anni nella sua Sicilia, lasciando un’eredità difficile da raccogliere. La notizia della sua scomparsa ha colpito duramente non solo i colleghi, ma anche lettori e lettori affezionati che da anni seguivano le sue analisi e corrispondenze. Chi lo ha conosciuto a Gerusalemme lo ricorda nella sua casa fuori dalle mura della Città Vecchia, sempre pronto a offrire consigli, indicazioni, riferimenti. Era generoso con i giovani cronisti, attento, e sempre disposto a condividere la propria esperienza.
Aveva incontrato i grandi protagonisti del conflitto mediorientale: da Yitzhak Rabin a Yasser Arafat. Conosceva i dossier a memoria, ma soprattutto conosceva le persone. Era una bibbia vivente del Medio Oriente, e la sua competenza era riconosciuta anche dalla stampa internazionale.
Forse davvero, come è stato scritto, all’American Colony ci vorrebbe una targa con il suo nome. Non solo perché da lì ha raccontato il mondo, ma perché da quella finestra – vera e simbolica – ci ha insegnato a guardare oltre. Con sobrietà. Con lucidità. E con uno stile che oggi manca profondamente.