
Chiesto dalla Libia di non recarsi nel Paese, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è stato di fatto espulso diplomaticamente da Tripoli. Un gesto senza precedenti, che ha aperto una crepa profonda nei rapporti tra il governo italiano e le autorità libiche, e ha riportato al centro dell’agenda politica il controverso caso del generale Najeem Osama Almasri Habish. La mancata accoglienza del ministro da parte delle autorità libiche, formalmente motivata da “questioni interne”, viene letta da più parti come una risposta politica all’irritazione generata dal trattamento del caso Almasri da parte dell’Italia. Una figura chiave del regime libico, arrestata a Torino e successivamente espulsa senza che venisse dato seguito al mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale.
Il gesto di Tripoli ha messo in imbarazzo Palazzo Chigi, colpendo proprio il ministro che aveva difeso in Aula la gestione dell’espulsione di Almasri parlando di “misura necessaria per la sicurezza nazionale”. Ma le opposizioni non hanno creduto a questa versione fin dal primo momento, e ora rilanciano le accuse: il governo non solo sapeva perfettamente chi fosse Almasri, ma avrebbe anche pianificato il suo rilascio in accordo con i vertici libici. A sostegno di questa tesi, sono emersi dettagli inquietanti: email e comunicazioni interne in cui si invitava a “parlarne su Signal”, l’app di messaggistica crittografata, per evitare intercettazioni o tracciamenti. Una prassi che, se confermata, alimenta l’ipotesi di una gestione parallela e opaca del dossier, ben lontana dai canali istituzionali.
L’opposizione parla senza mezzi termini di complicità politica. Secondo Pd, Movimento 5 Stelle, +Europa, Italia Viva e Avs, il governo ha consapevolmente aggirato la giustizia internazionale, favorendo un esponente del regime libico su cui pendono accuse gravi, tra cui torture, detenzioni arbitrarie e omicidi. Il fatto che si sia scelto di trattare la questione attraverso canali criptati, eludendo il confronto con la magistratura e con la comunità internazionale, viene letto come un segnale di colpevolezza. Il rifiuto di Giorgia Meloni di riferire in Parlamento ha ulteriormente infiammato il dibattito.

In Aula, le informative dei ministri Piantedosi e Nordio sono state considerate vaghe, reticenti, incapaci di chiarire come e perché Almasri sia stato rilasciato e rispedito in Libia. Le opposizioni, nel frattempo, hanno presentato una mozione di sfiducia contro Nordio, chiedendo che la premier si assuma la responsabilità politica dell’intera vicenda. La vicenda ha inoltre attirato l’attenzione della Corte Penale Internazionale, che ha avviato un’indagine per verificare se l’Italia abbia violato lo Statuto di Roma e gli obblighi di cooperazione giudiziaria.
Anche la magistratura italiana si è mossa: secondo fonti giudiziarie, sarebbe in corso un’indagine per verificare eventuali reati legati a favoreggiamento, abuso d’ufficio e violazione di atti d’ufficio. La presenza di comunicazioni riservate su piattaforme cifrate come Signal è ora al centro delle verifiche, e potrebbe rappresentare un punto di svolta nel quadro delle responsabilità.
Sul fronte internazionale, la gestione del caso Almasri ha provocato forti reazioni tra le organizzazioni per i diritti umani, che parlano di un episodio gravissimo, una “vergogna diplomatica” che mina la credibilità dell’Italia. Consegnare un imputato alla giustizia internazionale sarebbe stato un atto dovuto, e invece l’Italia avrebbe scelto di assecondare le richieste di un Paese alleato per mere ragioni politiche e strategiche.

Il governo, dal canto suo, continua a minimizzare. Si è parlato di “errore tecnico”, di “questione di ordine pubblico”, senza mai entrare nel merito delle accuse. Ma l’opinione pubblica e l’opposizione non si accontentano. La richiesta di trasparenza si fa sempre più forte e trasversale. Le chat su Signal, i documenti riservati e l’atteggiamento reticente dell’esecutivo rendono difficile credere alla versione ufficiale.
La sensazione è che il caso Almasri stia diventando un nodo politico e istituzionale centrale, che rischia di travolgere l’immagine del governo e di aprire una crisi di credibilità. Con la premier ancora in silenzio e il Quirinale in attesa, il tempo per fornire una risposta chiara si accorcia. E la domanda che si ripete da settimane – chi ha deciso davvero l’espulsione di Almasri? – resta ancora senza risposta.