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Il video della morte di Andrea Russo: quando il dolore diventa spettacolo

Pubblicato: 11/07/2025 22:17

Corre, come se volesse fuggire da qualcosa che lo braccava dentro. Andrea Russo ha 35 anni, una vita che lo ha portato quel giorno – l’8 luglio – sulla pista dell’aeroporto di Orio al Serio, a Bergamo. Le immagini girano in rete da ore, da giorni, implacabili, spietate. Mostrano il suo corpo avvicinarsi alle turbine di un aereo in movimento. Lo si vede tentare di salire sul primo motore, poi desistere. Infine la corsa verso il secondo. Un attimo. Poi il vuoto.

Il filmato è stato registrato da una passeggera brasiliana a bordo di un altro velivolo. Un video brutale, diretto, inequivocabile, che riprende l’intero gesto: il suicidio di un uomo che si lascia inghiottire da un motore acceso. Lo si vede fino all’ultimo istante, mentre ignora i richiami, mentre un addetto cerca – inutilmente – di fermarlo. Il resto è silenzio. O dovrebbe esserlo.

Invece, no. Il video è diventato virale. In pochi clic ha attraversato WhatsApp, Telegram, gruppi social. Alcuni lo condividono con didascalie frettolose, altri con toni da sensazionalismo da bar, molti lo guardano con curiosità morbosa. Ma tanti, tantissimi, stanno alzando la voce. Perché una morte così straziante non dovrebbe diventare contenuto da consumo rapido. Non dovrebbe servire a fare engagement.

C’è chi commenta sotto i post: “Vergogna a pubblicare queste immagini”, “Non è informazione, è pornografia del dolore”, “Pensate se fosse vostro figlio, vostro fratello, vostro amico”. E hanno ragione. Perché la libertà di cronaca non può mai prescindere dalla dignità della persona, nemmeno – e soprattutto – quando quella persona non c’è più. Cosa ci dice, davvero, quel video? Ci aiuta a capire? A riflettere? O è solo un pugno allo stomaco fine a sé stesso, una cicatrice in più per chi era lì, per chi ha amato Andrea, per chi ogni giorno combatte contro i propri fantasmi?

Il suicidio di Andrea Russo ha aperto anche un dibattito sulla sicurezza negli aeroporti, già messa in discussione da un episodio simile avvenuto poche settimane prima nello stesso scalo. Le indagini sono in corso, e dovranno chiarire come sia stato possibile per un civile eludere i controlli e accedere così facilmente a un’area critica. Ma nulla, davvero nulla, giustifica la diffusione integrale di quelle immagini, se non l’intento di colpire la pancia del pubblico, sacrificando empatia e decoro.

Nel giorno in cui Andrea ha perso la vita, sul luogo della tragedia sono accorsi psicologi e operatori della Sipem Sos, per assistere chi aveva visto, impotente, quell’orrore. Un gesto giusto, necessario. Ma oggi ci vorrebbe lo stesso riguardo anche per chi, da uno schermo, rischia di diventare spettatore inconsapevole di una violenza reale.

La domanda, allora, non è più se fosse legittimo riprendere. Ma se fosse giusto pubblicare. E la risposta, per molti, è già scritta: no. Non tutto ciò che si può vedere, si deve vedere. Non tutto ciò che accade è destinato a diventare virale. Alcuni momenti, come certe morti, meritano il silenzio. E il rispetto.

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