
Nel calcio dei chip e dei sensori biometrici, c’è ancora spazio per gesti fuori dal tempo, che sanno di genuinità e spirito di adattamento. Proprio così, in Champions League – ma nella versione meno patinata, quella dei turni preliminari – è andata in scena una storia che sembra venire direttamente dall’oratorio.
Protagonista, il centrocampista Rory Holden dei gallesi The New Saints, impegnati in una dura sfida contro i macedoni dello Shkendija. Il match è finito 0-0, ma la vera notizia si nasconde tra i dettagli più inaspettati di quei novanta minuti.
Tutto succede poco prima dell’intervallo: Holden si ritrova la maglia macchiata di sangue dopo un contrasto. L’arbitro non ha dubbi, bisogna cambiarsi subito. Peccato che in panchina nessuno abbia una maglia di ricambio col suo numero.

Così, lo staff si reinventa: penna alla mano, disegna il numero su una maglietta bianca “vergine”. Sì, proprio numero scritto a penna: un’arte antica, che ricorda le partite tra amici quando si dimenticava il kit a casa.
Holden torna in campo con la sua maglia “homemade”, approvata con un mezzo sorriso dall’arbitro, almeno fino alla pausa. Nella ripresa, finalmente, il centrocampista può indossare di nuovo un kit professionale come si deve.
Scene come questa difficilmente si vedranno ai quarti di finale, e forse va bene così. Ma in questa Champions dei poveri, tra il sorriso dei tifosi e lo stupore dei delegati UEFA, si nasconde l’essenza più vera del calcio: creatività, passione e quella scintilla che accende i sogni dei bambini che rincorrono un pallone, anche con i numeri scritti a mano.