
LONDRA – La battaglia non comincia oggi. È cominciata anni fa, quando uno sciava tra i larici e l’altro correva scalzo su un campo in terra battuta vicino al mare. È cominciata senza saperlo, come cominciano le grandi storie: con un gesto piccolo, un incontro fortuito, un padre che allunga una racchetta, una madre che sorride e dice: “Vai”. È cominciata molto prima che Sinner e Alcaraz diventassero i due nomi che oggi fanno tremare Wimbledon. Ma oggi, finalmente, si chiude un cerchio.
Il giardino è pronto. L’erba del Centre Court è stata accarezzata, pettinata, sorvegliata come una reliquia. L’ora è fissata: le 17 italiane. Il sole sarà alto, come sempre quando il tennis si fa rito. E i due ragazzi — perché sì, sono ancora ragazzi — varcheranno quella soglia come si entra in una cattedrale senza muri. Le mani asciutte, le facce tese, lo sguardo lontano. Ognuno con la propria armatura.
Il principe rosso e il figlio del vento
Uno viene dal freddo e dal silenzio, Jannik Sinner, il figlio delle Dolomiti. Parla poco, ride piano, si muove come se ogni passo avesse un peso. Il suo tennis è scolpito: ogni colpo ha il suono della roccia che si spezza, della fatica che non si racconta. Quando perde, sparisce. Quando vince, non cambia mai espressione. Il campo per lui non è scena, è altitudine interiore.
L’altro è Carlos Alcaraz, il ragazzo delle luci accese, il figlio del sud. Lo senti arrivare prima di vederlo. Canta, ride, abbraccia tutti. Il suo tennis è una festa pericolosa: estro, improvvisazione, corpo che danza e mente che sfugge. Ma sotto la superficie scintillante c’è una fame antica, una disciplina che somiglia all’amore.
Si sono cercati per anni. Si sono studiati, annusati, feriti. Hanno giocato match splendidi e altri che avrebbero voluto dimenticare. Oggi non si cercano più: oggi si sfidano.
Due eserciti in miniatura
Attorno a loro, si muovono microcosmi opposti. Il campo Sinner è una centrale operativa: Cahill osserva, Vagnozzi scrive, Vittur gestisce, Ceccarelli ascolta. Tutti con ruoli precisi, tutti con sguardi affilati. Mancano Panichi e Badio, un altro strappo. Jannik cambia, sempre. Ma non per capriccio: per bisogno di crescere. Ogni addio è una pietra in più sotto i piedi.
Il clan Alcaraz, invece, è una famiglia da film spagnolo: Ferrero è il maestro e il confidente, Molina il manager di sempre, la psicologa Isabel l’unica che riesca a fermarlo quando il sangue gli corre troppo veloce. Lì dentro ci sono fratelli, amici, genitori. È un circo itinerante con un codice comune: non perdere mai il sorriso, nemmeno in guerra.
La finale e il mondo che guarda
Oggi non si affrontano solo due stili di gioco. Si affrontano due idee di essere uomini, due infanzie, due futuri. Uno ha trovato la propria forza nel sottrarre, l’altro nell’aggiungere. Uno chiude il pugno, l’altro apre le braccia. Eppure si rispettano. Come i grandi rivali, sanno che l’uno non esiste senza l’altro.
Non c’è più Djokovic. Non c’è più Nadal. Federer è solo un’ombra nei corridoi. È un cambio di era, ma senza retorica: con la calma solenne di chi sa che qualcosa è finito, e che qualcosa di gigantesco sta cominciando.
Sarà uno scambio lungo a decidere tutto. O una palla corta. O un doppio fallo. Nessuno lo sa. Ma chi vedrà questa finale — e ne parlerà tra dieci anni, seduto a cena o su un tram — saprà di aver assistito a qualcosa di irripetibile.
Non per i colpi. Non per il punteggio.
Ma perché a volte il tennis somiglia alla vita. E la vita, oggi, ha due nomi.