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“La camorra…”. Roberto Saviano piegato dal dolore: poi rompe il silenzio. Rischia ancora

Pubblicato: 15/07/2025 10:06
Roberto Saviano piange Bidognetti

Ci sono battaglie che non si combattono con le armi, ma con le parole. Parole scritte, dette, gridate quando il silenzio diventa complice. Parole che costano caro, che trasformano una vita in esilio, in solitudine, in resistenza. È questo il prezzo che alcuni pagano per fare giornalismo d’inchiesta, per raccontare ciò che molti preferirebbero ignorare. Ed è il caso di Roberto Saviano, la cui esistenza è stata segnata da una sentenza che, dopo sedici anni, chiude una lunga e dolorosa parentesi.
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In aula non c’erano autorità né bandiere. C’erano cittadini, lettori, gente comune, venuta da ogni parte d’Italia. C’era il volto stanco di chi ha portato sulle spalle un peso che non gli spettava: la prova, costante, di dover giustificare la propria protezione, la propria scorta, la propria paura. Ma c’era anche l’eco di una verità attesa, quella di una giustizia che riconosce finalmente il carattere intimidatorio e mafioso di quanto accaduto nel 2008.

La sentenza: condannati Bidognetti e l’avvocato Santonastaso

La Corte d’Appello di Roma ha confermato la condanna per minacce aggravate dal metodo mafioso nei confronti del boss dei Casalesi, Francesco Bidognetti, e del suo avvocato Michele Santonastaso. Una decisione storica, che non riguarda solo una vicenda giudiziaria, ma sancisce un principio essenziale: la camorra non ha minacciato la politica, ma l’informazione, scegliendo di colpire chi ha avuto il coraggio di raccontarla.

Era il 2008, durante il maxiprocesso Spartacus, quando l’avvocato del clan lesse in aula un documento accusando Roberto Saviano e la giornalista Rosaria Capacchione di aver “inquinato” i giudici con le loro inchieste e con il libro “Gomorra”. Quella lettura fu un atto pubblico, formale, ma profondamente mafioso nel messaggio e nell’intenzione: mettere alla gogna chi aveva svelato il volto criminale di un sistema.

Un attacco frontale alla libertà di stampa

Quello che è accaduto in quell’aula di tribunale non ha precedenti. Boss e legali che attaccano frontalmente giornalisti per il loro lavoro, cercando di delegittimare la forza della verità. Un gesto simbolico e strategico: se si riesce a ridurre il giornalismo a propaganda, allora anche la realtà può essere manipolata. «Non era mai accaduto nel mondo», ha ricordato Saviano, «che boss mafiosi e i loro avvocati accusassero dei cronisti delle proprie condanne».

Per lui, quel giorno fu l’inizio di un tunnel: isolamento, paura, vita stravolta. Le parole che ha pronunciato dopo la sentenza, lunedì 14 luglio, sono un distillato di dolore e sollievo. «Mi hanno rubato tutto», ha detto tra le lacrime. Un pianto che non ha nulla di retorico: «Non piangevo così dal funerale di Michela Murgia». Ma stavolta le lacrime sono anche liberazione.

Un simbolo per tanti, ma lasciato solo dalle istituzioni

Durante l’udienza, Saviano ha raccontato il desiderio più semplice, quello di una normalità mai avuta: «Sogno solo una passeggiata, una gita in moto», ha sussurrato. Dal pubblico, una ragazza si è alzata: «Te la compro io la moto, Roberto». È in questi gesti che si misura l’affetto collettivo per un uomo che ha pagato il prezzo del suo coraggio.

Eppure, come lui stesso ha fatto notare, in aula nessun rappresentante delle istituzioni era presente. «Avete visto qualcuno? Io no», ha detto con amarezza. Una frase che pesa come un atto d’accusa. Mentre cittadini comuni percorrevano chilometri per esserci, le istituzioni tacevano.

La forza dell’informazione contro la criminalità organizzata

«Sedici anni per avere una prova: la camorra teme l’informazione», ha dichiarato Saviano. E la sentenza lo conferma: quelle parole del 2008, quel documento letto davanti ai giudici, non erano solo parte di una strategia legale. Erano una minaccia mafiosa, mascherata da atto formale. Un messaggio trasversale per dire ai cronisti: non raccontate, non indagate, non disturbate.

Davanti allo schermo che collegava l’aula al carcere di Opera, Saviano ha rivisto lo sguardo del suo nemico storico. «Bidognetti? È lo stesso che usò una donna incinta come scudo umano per sfuggire ai killer. Lo odio», ha sussurrato. Ma non è un odio che chiede vendetta. È un odio che nasce dalla ferita, dalla privazione, dalla stanchezza di chi ha dovuto giustificare la propria sopravvivenza.

Una vittoria che è anche un monito

La sentenza non cancella le notti insonni, non restituisce gli anni perduti. Ma segna un punto fermo: chi racconta la mafia non è un nemico dello Stato, ma un alleato. È un giornalista, non un bersaglio. È un cittadino che, con le parole, costruisce memoria, consapevolezza, coscienza civile.

Roberto Saviano ha lasciato l’aula senza trionfalismi. Ma con una certezza in più: la verità, prima o poi, arriva. Anche se ci mette sedici anni.

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