
È definitiva la condanna per Katalin Bradacs, la 48enne di origine ungherese riconosciuta colpevole dell’omicidio del figlio Alex Juhasz, di appena 2 anni. La donna, che si trova già detenuta nel carcere di Capanne, in Umbria, dovrà scontare 16 anni di reclusione, di cui almeno tre in una struttura psichiatrica. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, che ha rigettato il ricorso della difesa, rendendo la sentenza irrevocabile.
Il delitto avvenne il 1° ottobre 2021 in un casolare abbandonato a Po’ Bandino, frazione di Città della Pieve, in provincia di Perugia. Quel giorno, secondo quanto accertato in sede processuale, la donna accoltellò il bambino e successivamente trasportò il corpo all’interno di un supermercato, lasciandolo sopra una cassa e fingendo di essere stata aggredita da un estraneo.
Gli investigatori, sin dai primi momenti, raccolsero prove schiaccianti contro di lei: il coltello sporco di sangue venne ritrovato nascosto sotto una cassa, mentre tracce ematiche del bambino erano presenti sul maglione della madre, abbandonato nell’ex centrale Enel, luogo in cui sarebbe avvenuto l’omicidio.

Durante tutto il processo, la difesa – rappresentata dall’avvocato Luca Maori – ha cercato di sostenere la totale infermità mentale della donna. Ma la perizia psichiatrica ha parlato chiaro: vizio parziale di mente, non sufficiente però a escludere la piena responsabilità penale per l’omicidio del figlio.
Dietro il gesto estremo, un contesto familiare complicato. Poco prima del delitto, il padre del bambino, Norbert Juhasz, aveva ottenuto l’affidamento esclusivo del piccolo da parte di un tribunale ungherese. Katalin, contrariata dalla decisione, avrebbe preso il figlio e lo avrebbe portato in Italia senza autorizzazione.
In aula, l’avvocato di Juhasz ha parlato di una lunga battaglia giudiziaria: “Abbiamo una verità processuale che parla di vizio parziale. Ma per noi era chiaro che fosse perfettamente consapevole di ciò che stava facendo. È stato difficile dimostrarlo, ma ci siamo riusciti”.
Il padre del piccolo, oggi tornato a vivere in Ungheria, ha espresso il proprio dolore dopo la sentenza definitiva: “Me l’ha portato via. Sono a metà tra la soddisfazione e il dolore. Mio figlio non tornerà più, ma spero che questa donna non possa fare del male ad altri”.

Nel corso delle indagini, emersero anche numerose menzogne raccontate dalla donna, sin dalle prime ore dopo il delitto. Aveva accusato uno sconosciuto di aver aggredito il bambino, una ricostruzione giudicata del tutto falsa dagli inquirenti. Bugie che, secondo la magistratura, confermerebbero la sua lucidità e freddezza.
Non era la prima volta che la 48enne usava false accuse per manipolare la giustizia: anche durante l’udienza ungherese per l’affidamento, aveva infangato la nonna del piccolo, sostenendo che fosse violenta. Accuse poi smentite. Ora, con la sentenza definitiva, cala il sipario su uno dei casi più scioccanti degli ultimi anni.