
Razan aveva solo quattro anni. È morta la mattina di domenica 20 luglio, in un ospedale di Gaza, per malnutrizione. La voce che racconta la sua storia è quella del padre, Maher Abu Zaher, 43 anni, un ex ristoratore diventato simbolo di una crisi umanitaria silenziosa e straziante. «Non avevo latte, né un pezzo di pane. L’ho vista morire, e non ho potuto fare nulla».
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La morte silenziosa di una bambina
Nata e cresciuta nel villaggio di Almoghraga, nel centro della Striscia di Gaza, Razan era una bambina sana, serena, come tante. Ma tutto è cambiato con l’inizio dei bombardamenti israeliani, che hanno costretto la famiglia a cercare rifugio nella scuola dell’Unrwa nel campo profughi di Nuseirat. È lì che la piccola ha cominciato a mostrare i primi segnali di crollo fisico e psicologico: «Durante uno dei raid, ha avuto un attacco di panico. Tremava, aveva i crampi. Da quel giorno la sua salute è peggiorata».
La bambina è stata ricoverata diverse volte all’Ospedale Al Aqsa, dove almeno inizialmente poteva ricevere latte, cibo e medicine. «Facevamo i turni, io restavo con lei di giorno, mia moglie Tahir di notte», racconta Maher. Ma con il passare del tempo anche le scorte dell’ospedale si sono esaurite. «All’inizio ci aiutavano le ong palestinesi e internazionali, ma negli ultimi tre mesi tutto è cambiato».

I valichi chiusi e l’accesso negato agli aiuti
L’assedio di Gaza ha aggravato una situazione già drammatica. «Israele ha bloccato i valichi, impedendo l’arrivo degli aiuti umanitari. Non entravano più né alimenti, né medicine. Dove potevo trovarlo il cibo? Le cucine comunitarie sono state chiuse o bombardate». Maher racconta di come, all’inizio, amici e parenti riuscissero ancora a portare qualcosa: «Poi il cibo è finito per tutti».
Razan ha smesso di mangiare. La famiglia non aveva più latte, farina, riso, né pannolini. «Mia moglie l’avvolgeva con la carta igienica, ma poi è finita anche quella. Un rotolo costa 20 shekel, cinque euro. Abbiamo cominciato a usare degli stracci, lavati nelle pozzanghere».
Il figlio quindicenne ha tentato di raggiungere uno dei centri della Gaza Humanitarian Foundation, ma è tornato a mani vuote. «Gli ho ordinato di non farlo mai più. In quei luoghi si rischia la vita».
Una morte annunciata
Durante l’ultimo ricovero, Razan era già troppo debole. «Neanche i medici avevano da darle da mangiare», dice Maher. Il suo racconto è secco, ma intriso di dolore. «Prima della guerra ero un ristoratore, cucinavo shawarma per tutti. Ora sono il padre di una bambina morta di fame. È morta davanti ai miei occhi. E io odio me stesso».
È un racconto che interroga, accusa, lacera. Un grido che va oltre il dolore individuale e diventa simbolo collettivo di una tragedia silenziosa. «Perché il mondo non ci vede? Perché il mondo non vede Gaza?», chiede Maher. E non c’è risposta.

Una tragedia umana oltre la guerra
La morte di Razan non è un caso isolato. È il volto straziante di una crisi umanitaria che colpisce i più deboli, privati del diritto essenziale alla sopravvivenza. La guerra a Gaza non è solo fatta di bombe e carri armati, ma anche di fame, disperazione, mancanza di accesso alle cure.
Nel racconto di Maher c’è tutta la violenza dell’impotenza, quella che trasforma un padre in spettatore di una morte annunciata. Non servono numeri, né analisi geopolitiche, per capire la portata di ciò che sta accadendo: bastano gli occhi di una bambina che si spegne lentamente, nel silenzio assordante del mondo.