
Che la carestia a Gaza sia una tragedia umanitaria è certo. Non si discute. Nonostante Israele lo neghi. Certo è anche che Hamas usa il cibo come arma impropria, contrastando la distribuzione degli aiuti alimentari, con le armi e con le minacce verso i gazawi. Come riporta Micol Flammini su “Il Foglio”, Salman al Daya, ex rettore dell’Università islamica di Gaza, accusa Hamas di aver preso in ostaggio due milioni di persone per servire i propri interessi. Le responsabilità di Hamas, che continua ad alzare la posta nella trattative, è certa, naturalmente fin dalla strage del 7 ottobre. Ma è anche certo che Israele sta sbagliando strategia nella Striscia, attirandosi la condanna del mondo.
Non basta dimostrare con un video che gli aiuti alimentari a disposizione dell’Onu a Gaza non vengono distribuiti e rischiano di finire al macero. Non fa che confermare che Israele non è capace di gestire il caos. Tutto comincia dal 7 ottobre. La responsabilità primaria è di Hamas. Ma, passati quasi 22 mesi dalla strage, non si possono ignorare gli errori del governo guidato da Netanyahu, peraltro ormai quasi privo di una maggioranza alla Knesset.
Il diritto di Israele di esistere in pace come Stato indipendente e sovrano è giuridicamente e moralmente indiscutibile. Il suo diritto, dopo la strage, di colpire i suoi nemici lo è altrettanto. Al di là delle trattative a corrente alternata per la liberazione degli ostaggi e per far tacere le armi, si tratta ormai di interrogarsi su quali siano gli obiettivi politici del governo. La prospettiva, in linea teorica, non può che essere quella di allargare gli accordi di Abramo del 2020 a tutti i paesi della regione, sulla base del reciproco riconoscimento. Non è semplice, per molte ragioni. Ma, sconfitti militarmente Hamas e Hezbollah, il nodo principale da sciogliere è quello della sorte dei Territori palestinesi di Cisgiordania e, inevitabilmente, della Striscia sottratta al dominio di Hamas.
È evidente che la ANP non è stata in grado di gestire politicamente un graduale passaggio verso costruzione di uno Stato in senso proprio. In fondo lo dimostrò quando Hamas riuscì a sottrarre Gaza alla sua autorità. Questione interna alle fazioni palestinesi, l’una contro l’altra armata. Questione che la leadership di Abu Mazen non è riuscita a risolvere.

La ANP non è stata isolata dal mondo. È riconosciuta sostanzialmente dall’Onu, da molti paesi e ha rapporti con una lunga lista di Stati, Italia compresa. Vive, di fatto, grazie al sostegno economico delle agenzie internazionali. Riconoscerla formalmente come Stato, come ha annunciato il presidente francese Macron, non cambia la sostanza. In realtà, nonostante Abu Mazen definisca i miliziani di Hamas “figli di cani”, nessuno ha mai chiarito se l’eventuale “Stato” palestinese sarebbe uno stato democratico disposto a riconoscere lo Stato democratico israeliano. Dunque, per ora, si discute di mera teoria. L’iniziativa di Macron è rimasta isolata.
Un altro nodo deve tuttavia essere sciolto, e non certo di secondo piano. Israele è disposto a riconoscere il diritto di esistere di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, e con quali confini? Ariel Sharon ebbe nel 2005 la forza e il coraggio di ordinare ai coloni israeliani nella Striscia di abbandonare i loro insediamenti. Netanyahu sarebbe capace di fare altrettanto con i coloni che, giorno dopo giorno, tendono a conquistare nuove aree in Cisgiordania? Dubitare è più che legittimo.
Il premier non si espone? Parlano invece i suoi ministri. Bezalel Smotrich ha detto: “Occuperemo Gaza e la renderemo parte inscindibile dello Stato di Israele”. Amihai Ben-Eliyahu ha assicurato che “Tutta Gaza sarà ebraica… il governo sta spingendo affinché Gaza venga cancellata. Grazie a Dio, stiamo estirpando questo male. Stiamo spingendo la popolazione che si è istruita sul Mein Kampf”.

Gila Gamliel si è dilettata a pubblicare su X un video creato con l’intelligenza artificiale: mostra una Gaza in macerie che si trasforma in una destinazione israeliana turistica di lusso, riprendendo la sortita di Trump. “O noi o loro”, ha chiarito. Non è detto che Trump, abituato a cambiare posizione rapidamente, abbia gradito.
Si dirà che questi tre ministri sono noti estremisti e che Netanyahu non è d’accordo. Ma senza di loro il suo governo cadrebbe e si andrebbe a elezioni anticipate. Non solo. Due giorni fa la Knesset ha votato a maggioranza una mozione che chiede l’annessione della Cisgiordania, cioè Giudea e Samaria. Per carità, una mozione simbolica, non esecutiva. Ma descrive bene il bollente clima politico israeliano di questi tempi difficili. Perché si riferisce al sogno di ricostruire il regno di Israele “dal fiume al mare”, dal Giordano al Mediterraneo, regno peraltro storicamente mai esistito. Lo stesso sogno di Hamas, che vuole distruggere lo Stato di Israele, nel nome di una Palestina arabo-islamica, anch’essa storicamente mai esistita.
Netanyahu tace. Intanto, ieri sera, a Tel Aviv, si è tenuta l’ennesima manifestazione di piazza contro il suo governo. E la polizia l’ha sciolta con la forza. Mentre nelle comunità della diaspora e tra i più convinti sostenitori non ebrei dello Stato israeliano crescono perplessità, imbarazzo e grande preoccupazione.