
A fare il macabro ritrovamento di ossa umane qualche giorno fa, sono stati alcuni operai impegnati nei lavori di ristrutturazione del padiglione Monaldi dell’ospedale San Camillo di Roma, sede di un reparto in disuso da anni. Durante gli interventi, sono emersi dei resti umani, subito segnalati alle autorità. Sul posto è intervenuta la Polizia Scientifica, che ha lasciato l’edificio soltanto dopo diverse ore, portando con sé le ossa per ulteriori analisi.
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I frammenti sono ora al vaglio dei medici legali, che dovranno stabilirne sesso, età e datazione. Le prime indiscrezioni — non confermate ufficialmente — parlano di resti molto recenti, una circostanza che, se confermata, potrebbe cambiare completamente il quadro dell’indagine.
Il legame con il caso Orlandi
Come spesso accade in questi casi a Roma, il pensiero è subito andato a Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana scomparsa nel 1983. L’associazione, pur non supportata da elementi concreti al momento, è stata alimentata dal fatto che i resti sono stati trovati in un luogo che, secondo le dichiarazioni rese nel 2008 da Sabrina Minardi, sarebbe stato collegato al covo della Banda della Magliana.
Secondo quanto dichiarato dalla Minardi ai magistrati nel corso della seconda inchiesta sulla scomparsa, Emanuela sarebbe stata tenuta prigioniera in un edificio nel quartiere Monteverde, collegato ai sotterranei dell’ospedale San Camillo. La testimonianza fu considerata attendibile almeno in parte, e alcuni elementi — come l’esistenza del covo — vennero confermati dagli inquirenti. L’inchiesta fu poi archiviata, ma i suoi strascichi continuano a emergere ogni volta che si scopre un nuovo indizio.

Il commento di Pietro Orlandi
«Io non credo che quelle ossa siano di mia sorella», ha commentato Pietro Orlandi in un’intervista a FqMagazine. «Ogni volta che trovano delle ossa in giro per Roma pensano subito a lei. L’unico legame, in questo caso, è con il covo della Banda della Magliana, a cui si arriva dai sotterranei del San Camillo».
Orlandi ribadisce di sperare che non si tratti di Emanuela: «Spero di non trovare mai le ossa di mia sorella, perché questo significherebbe che è morta. Noi speriamo ancora di trovarla viva». Un dolore che si rinnova ogni volta che emergono nuovi ritrovamenti, come accadde nel 2018, quando nella Nunziatura apostolica di Roma vennero rinvenute ossa che si rivelarono poi appartenenti a un uomo. Anche allora, la notizia si spense solo dopo le analisi del DNA, che esclusero ogni collegamento con Emanuela.
Altri ritrovamenti e piste senza esito
Non è la prima volta che resti umani vengono collegati, anche solo ipoteticamente, al caso Orlandi. Dopo la Nunziatura, fu la volta del cimitero Teutonico in Vaticano, dove, su segnalazione anonima, furono aperte due tombe che risultarono vuote. Sotto di esse, i tecnici trovarono una stanza con migliaia di ossa, ma anche in quel caso le analisi esclusero ogni legame con Emanuela.
La Santa Sede, attraverso un comunicato della Sala Stampa, spiegò che i frammenti rinvenuti erano anteriori al 1983, alcuni risalenti ad almeno cento anni fa. L’inchiesta fu archiviata dal Giudice Unico dello Stato della Città del Vaticano, accogliendo la richiesta dell’Ufficio del Promotore di Giustizia.

Il problema dei resti non identificati
Pietro Orlandi ha anche rilanciato una proposta concreta al Comune di Roma: creare un database del DNA per tutti i corpi non identificati custoditi nelle celle frigorifere della Capitale. «Qualche anno fa, la sindaca Virginia Raggi si disse disponibile a farlo. Non so se abbia avuto il tempo di portare a termine quell’iniziativa, ma sarebbe un passo fondamentale», ha dichiarato.
L’idea è quella di comparare il DNA dei resti con quello delle famiglie delle persone scomparse. «La prima cosa da fare, quando qualcuno sparisce, dovrebbe essere l’estrazione del DNA dei parenti», sottolinea Orlandi. Una procedura sistematica, che eviterebbe ogni volta di dover riaprire speranze e dolori su basi incerte.
Attesa per i risultati delle analisi
Ora sarà la Procura di Roma a decidere se procedere con gli esami genetici. In caso di positività al DNA di Emanuela Orlandi, le implicazioni sarebbero enormi. Ma al momento non ci sono elementi concreti che facciano pensare a un collegamento diretto.
Resta il peso simbolico di ogni nuova scoperta, il dolore collettivo che si riaccende, e la consapevolezza che ogni ossa senza nome ha una storia, una famiglia, un passato dimenticato. Trovare quelle risposte, per Emanuela come per tutti gli altri, è ancora oggi un dovere.