
È morto all’età di 71 anni Raffaele Fiore, ex esponente di spicco delle Brigate Rosse e protagonista di uno degli episodi più tragici e simbolici della storia italiana: l’agguato di via Fani, in cui venne sequestrato Aldo Moro e furono uccisi i cinque uomini della sua scorta. La notizia della scomparsa, avvenuta lunedì 28 luglio, è stata resa nota dall’avvocato Davide Steccanella, legale di un altro ex brigatista, Lauro Azzolini.
Fiore era considerato uno dei militanti più attivi del gruppo armato negli anni di piombo. Nonostante una condanna all’ergastolo, aveva ottenuto la libertà condizionale nel 1997, misura confermata dieci anni dopo. Non si era mai pentito né dissociato pubblicamente dalla lotta armata. Negli ultimi anni lavorava in una cooperativa, conducendo una vita lontana dai riflettori, ma senza mai rinnegare il suo passato.
Nato a Bari il 7 maggio 1954, Fiore era divenuto capo della colonna torinese delle Brigate Rosse. Fu arrestato a Torino nel 1979 e condannato nell’ambito del processo “Moro Uno”, che vide imputati numerosi membri dell’organizzazione terroristica coinvolti nel rapimento e nell’uccisione di Moro.

Secondo le ricostruzioni storiche, il 16 marzo 1978 Fiore era uno dei quattro brigatisti travestiti da avieri che parteciparono all’assalto al convoglio di Moro in via Fani, a Roma. La dinamica dell’agguato è nota: i brigatisti aprirono il fuoco contro le auto della scorta, uccidendo in pochi secondi i cinque uomini che accompagnavano il presidente della Democrazia Cristiana.
Il ruolo di Fiore fu centrale ma segnato da un episodio particolare: il mitra che impugnava si inceppò nel momento cruciale, impedendogli di colpire direttamente il veicolo su cui viaggiava Moro. Questo dettaglio venne fuori in fase processuale ed è stato più volte riportato negli atti giudiziari.

Dopo l’agguato, il sequestro di Moro durò 55 giorni, fino al tragico epilogo con l’assassinio dello statista, il 9 maggio 1978. Fiore non fu tra coloro che parteciparono direttamente all’uccisione, ma la sua responsabilità nell’operazione venne riconosciuta in sede giudiziaria.
Durante la sua detenzione, Fiore mantenne una posizione di chiusura rispetto alla collaborazione con la giustizia. Non rilasciò mai dichiarazioni pubbliche di revisione del proprio passato né aderì ai percorsi di dissociazione intrapresi da altri ex militanti delle Brigate Rosse.
La sua figura resta legata a uno dei capitoli più bui della storia italiana del dopoguerra. La morte di Fiore chiude una pagina personale ma riapre, inevitabilmente, il dibattito sulle responsabilità storiche, la memoria collettiva e la gestione del passato per coloro che furono protagonisti della lotta armata.