
In Medio Oriente, il peso delle parole spesso è preponderante. E quando a parlare non sono attivisti o analisti ma oltre 600 ex alti funzionari della sicurezza israeliana – generali dell’esercito, ex dirigenti del Mossad, dello Shin Bet, della polizia e di altri apparati dello Stato – il significato geopolitico si amplifica.
In una lettera ufficiale, diffusa ieri, i funzionari pongono una richiesta diretta al presidente Usa Donald Trump: usare la sua influenza per convincere Benjamin Netanyahu a porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza.
Una presa di posizione senza precedenti
Una presa di posizione senza precedenti per ampiezza e toni. “Questa guerra non è più una guerra giusta – ha dichiarato l’ex capo dello Shin Bet Ami Ayalon – e sta portando Israele a perdere la sua identità”. Il cuore della lettera è un giudizio tecnico e politico insieme: Hamas, oggi, non rappresenterebbe più una minaccia strategica.
Il conflitto, secondo i firmatari, non serve più alla sicurezza dello Stato ma la compromette, sia all’interno che sul piano internazionale. Non solo per una questione di immagine, ma anche perché mette a rischio la sicurezza degli ostaggi ancora in mano ad Hamas.
Il nodo ostaggi e la fame nella Striscia: la pressione sale
La pressione internazionale cresce anche sul piano umanitario. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, altre cinque persone sono morte di fame nelle ultime 24 ore. L’assedio totale ha portato a una crisi alimentare drammatica e Hamas, secondo quanto riferisce il Jerusalem Post, avrebbe chiesto “almeno 250 camion di aiuti umanitari al giorno” come condizione minima per un possibile ritorno al tavolo delle trattative.

La questione degli ostaggi, che sono oltre un centinaio ancora nelle mani di Hamas e della Jihad Islamica, resta uno dei temi più drammatici e politicamente delicati. Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, intervenuto davanti ai media internazionali prima della sua partenza per New York, ha usato parole nette.
“Hamas e la Jihad”, ha detto il ministro, “stanno usando la fame e la tortura degli ostaggi come parte di una campagna di propaganda sadica e ben pianificata”, ribadendo che “la questione degli ostaggi deve tornare al centro dell’attenzione mondiale”.
L’appello strategico a Trump e il messaggio tra le righe
Perché l’appello dei 600 è stato rivolto proprio Donald Trump? Il presidente Usa, leader politico influente presso l’elettorato israeliano di destra, è percepito da molti a Gerusalemme come l’unico in grado di influenzare Netanyahu da una posizione di forza. L’appello, infatti, è meno istituzionale di quanto sembri: è una mossa strategica rivolta non tanto alla Casa Bianca, quanto al cuore dell’elettorato conservatore israeliano e al network internazionale che lo sostiene.
Sul tavolo resta una guerra militarmente logorante, politicamente divisiva e umanamente catastrofica. Ma per la prima volta, a chiedere di fermarla sono coloro che, in passato, hanno costruito, mattone dopo mattone, l’architettura della sicurezza nazionale israeliana. Se è vero che la guerra è il prolungamento della politica con altri mezzi, forse è proprio alla politica – e alle sue élite – che oggi spetta il compito di fermarla.