
The Social Post ha intervistato in esclusiva Inbal Natan Gabay, Consigliere politico e Portavoce dell’ambasciata d’Israele in Italia. Il dialogo, in queste ore drammatiche con la decisione di Israele di occupare Gaza, assume ancor più importanza per comprendere se esiste ancora una strada, diplomatica, per porre fine alla fase acuta del conflitto tra Tel Aviv e Hamas, e soprattutto se si vuole percorrerla davvero.
TSP: Le ultime notizie da Gaza sono molto dure per tutti, ma vorrei chiederle: cosa pensa dell’iniziativa degli ex capi dell’intelligence israeliana? Hanno scritto a Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, chiedendogli di fare pressione su Netanyahu affinché ponga fine alla guerra a Gaza.
Sono d’accordo con lei. Questi sono momenti difficili per Israele, ma non solo adesso. Stiamo attraversando un periodo molto complicato ormai da due anni.
Questa iniziativa rappresenta, per noi, un esempio del dibattito tanto atteso che ruota attorno al tema della guerra. Non è un segreto che in Israele esista un dibattito molto, direi, vivace — non solo all’interno del governo, ma anche della società — sulla questione della guerra e degli ostaggi.
Il fatto che in Israele si possa discutere apertamente e senza paura è, secondo me, una delle manifestazioni più autentiche di democrazia. A volte c’è consenso nel governo, a volte no, ma non è un segreto — ed è ampiamente riconosciuto — che stiamo vivendo uno dei momenti più difficili anche al nostro interno.
TSP: Hamas non è più una minaccia, come affermato dagli ex capi dell’intelligence?
Penso sia abbastanza chiaro che non sia così, finché Hamas continuerà a tenere in ostaggio 50 persone innocenti, rapite dalle loro case.
Proprio lo scorso fine settimana abbiamo avuto una dimostrazione visiva, in diretta, di come Hamas stia torturando brutalmente questi ostaggi, lasciandoli morire di fame. Non si tratta solo di torture fisiche: Hamas ricorre anche a forme di terrorismo psicologico, colpendo non solo gli ostaggi, ma anche le loro famiglie, i loro figli e, più in generale, l’intera società israeliana.
È la prova evidente che Hamas è ancora attivo.
E finché continuerà a usare la propria popolazione come scudo umano, minacciandola e negandole l’accesso agli aiuti umanitari di base — aiuti arrivati con grande generosità anche dall’Italia, e recentemente anche da Israele — allora sì, Hamas rappresenta ancora una minaccia concreta. È ancora lì, e la Striscia di Gaza dovrebbe essere liberata.
Non solo: i palestinesi dovrebbero essere liberati da questa organizzazione terroristica. Devono essere liberati da Hamas per poter sperare in un futuro migliore.
E finché Hamas continuerà a invocare l’eliminazione dello Stato di Israele, rifiutando di accettarne l’esistenza, non ci sarà alcuna possibilità che possa restare al potere. Nel sud di Israele, ancora oggi, si sentono le sirene a causa dei lanci di razzi di Hamas.
È vero che Hamas è stato indebolito, ma la sua presenza continua a impedire la liberazione della Striscia e del popolo di Gaza.
TSP: Quindi, il rilascio di tutti gli ostaggi tenuti da Hamas è davvero la chiave per porre fine al conflitto, o non è sufficiente?
Il tema degli ostaggi è fondamentale per comprendere la società israeliana.
Oggi rappresenta una ferita aperta, sanguinante, nella carne viva del nostro tessuto sociale.
La società israeliana sta vivendo — e rivivendo — il 7 ottobre, e finché quegli ostaggi resteranno nelle mani di Hamas, non ci sarà modo di guarire questa ferita né, come collettività, di andare avanti. Credo che sia davvero la chiave.
La psicologia di una società non è poi così diversa da quella di un essere umano: non importa se si tratti di dieci persone o di una sola, ogni individuo — e ogni comunità — ha bisogno di una conclusione. Le persone hanno bisogno di poter seppellire i morti e riabbracciare i vivi. Finché questo non accadrà, la società israeliana non potrà guardare oltre, non potrà pensare al futuro.
Israele ha sempre subito pressioni per passare alla fase successiva. Ma come società, non possiamo farlo se prima non chiudiamo questo capitolo.
E l’unico modo per farlo, per iniziare un processo di guarigione è riportare indietro gli ostaggi. Solo così potremo tornare a ragionare, come collettività, sia emotivamente sia razionalmente, sul giorno dopo.
TSP: Pensa che il riconoscimento della Palestina come Stato, annunciato di recente da Francia e Regno Unito, tra gli altri, sia solo un altro strumento per fare pressione su Israele, o è in realtà un passo importante verso l’avvio di un dialogo autentico con il riconoscimento diplomatico da entrambe le parti in conflitto?
Credo che, su questo punto, non si possa davvero esercitare pressione su Israele. Pensare che esista un modo per farlo, al momento, è un errore.
Come si è visto, l’unica entità che ha espresso un chiaro ringraziamento ai paesi che hanno riconosciuto lo Stato palestinese — uno Stato che in realtà non esiste — è stata l’organizzazione di Hamas.
E questo, secondo me, è davvero uno sbaglio. Probabilmente non era nelle intenzioni di quei paesi, ma di fatto stanno ricevendo un endorsement da parte di un’organizzazione terroristica. Viene quindi naturale chiedersi se sia davvero la cosa giusta da fare, quando l’applauso arriva da Hamas.
Al momento, purtroppo, non importa quale paese lo affermi: si tratta comunque di parole vuote, perché uno Stato palestinese, semplicemente, non esiste.
Che venga riconosciuto o meno, è qualcosa che non ha riscontro nella realtà.
L’unico modo per arrivare a una soluzione è attraverso un negoziato diretto tra le due parti. Anche qui in Italia, diversi rappresentanti del governo hanno riconosciuto questo fatto: non esiste uno Stato da riconoscere.
Imporre una soluzione a una delle due parti — e in particolare a Israele — non è una strada percorribile. L’unica via possibile resta quella del dialogo diretto e di un accordo condiviso.
Se oggi venisse riconosciuto uno Stato palestinese, bisogna ammettere che sarebbe governato da un’organizzazione terroristica: sarebbe lo Stato di Hamas, sostenuto dall’Iran, che si troverebbe con confini ancora più vicini a Israele, come già tentato con Hezbollah.
Ci si può davvero aspettare che questo porti pace e stabilità? Sicuramente non a Israele, forse nemmeno all’intero Medio Oriente, e certamente non agli abitanti di Gaza.
TSP: Le radici profonde del conflitto tra Palestina e Israele affondano nella storia, ma la storia ci insegna che guerre infinite lasciano solo rovine da entrambe le parti, non solo da quella militarmente più debole. Quale mossa unilaterale, secondo lei, da parte di Israele potrebbe convincere i palestinesi che la strada verso la pace non è persa per sempre?
Vorrei ricordare che Israele ha già compiuto diversi passi unilaterali importanti. Uno dei più significativi è stato il ritiro dalla Striscia di Gaza, nel 2005.
All’epoca credevamo sinceramente che, lasciando Gaza — comprese le proprietà, le terre e perfino le coltivazioni agricole — agli abitanti locali, avremmo dato loro l’opportunità di svilupparsi e prosperare. Purtroppo, oggi non vediamo risultati positivi.
Volevamo davvero credere nella pace. Abbiamo dovuto allontanare con la forza gli israeliani che vivevano in quei luoghi, restituendo le terre alla comunità palestinese e alle autorità di Gaza.
Credevamo che Gaza potesse prosperare. Volevamo credere che ci fosse qualcuno, dall’altra parte, disposto a cogliere quell’occasione per costruire un futuro condiviso, quello che molti chiamano “il giorno dopo”.
Eppure, il 7 ottobre ha rappresentato un violento risveglio. Nonostante anni di tentativi e negoziati, fino a quella data la maggior parte di noi continuava a credere che ci fosse una possibilità di dialogo con una controparte disponibile al confronto.
Ma il 7 ottobre è stato uno spartiacque. Per molti israeliani, la speranza — o anche solo l’illusione — che la pace potesse essere raggiunta è crollata.
E non è un caso che molte delle persone assassinate in quell’attacco fossero attivisti per la pace che vivevano proprio in quelle aree. Tra loro, anche i coniugi Kipnis, con origini italiane, brutalmente assassinati durante il sanguinoso attacco del 7 ottobre.
Israele, malgrado la complessità della situazione, sta ancora adottando alcune misure di propria iniziativa. Stiamo infatti garantendo il passaggio degli aiuti umanitari, persino con il lancio aereo di derrate alimentari. Non solo da parte di Israele, ma anche da parte di altri paesi. Il 4 agosto, ad esempio, sono stati effettuati 120 lanci umanitari su Gaza. Nello stesso giorno, 300 camion sono entrati nella Striscia e gli aiuti trasportati da 250 di essi sono stati distribuiti dalle Nazioni Unite.
Stiamo quindi facendo — o quantomeno cercando di fare — del nostro meglio per fornire aiuti alla popolazione di Gaza, anche se sappiamo che Hamas spesso saccheggia questi rifornimenti, impedendo che raggiungano davvero i civili palestinesi.
TSP: In conclusione, Israele è sotto minaccia fin dalla sua fondazione: è ancora possibile credere in una diplomazia che possa davvero costruire dialogo e strumenti di pace?
Risponderei dicendo che abbiamo già provato la via diplomatica, e purtroppo la risposta che abbiamo ricevuto è stata il 7 ottobre.
Detto questo, alla fine non c’è alternativa: la diplomazia è l’unica strada percorribile. Speriamo che, prima o poi, possa portare a una soluzione.
Quindi sì, alla sua domanda rispondo che credo ancora nella diplomazia. Credo sia giusto continuare a sperare che, in qualche modo, si arrivi a un accordo.
Per esempio, Israele ha chiesto un cessate il fuoco e Hamas lo ha respinto. Anche le proposte più recenti sono state accettate da Israele e respinte da Hamas.
Eppure, anche in questo contesto difficile, continuiamo a credere nella diplomazia.
Personalmente, credo davvero che non esista un’altra via. Alla fine, dovrà esserci una soluzione diplomatica, che porti al dialogo e — si spera — un giorno anche alla pace.