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Alaska: il giorno in cui Trump fece arrestare Putin (racconto fantapolitico)

Pubblicato: 13/08/2025 09:32

Il cielo di Anchorage aveva un colore che sembrava trattenere il respiro. Era un grigio lattiginoso, immobile, che faceva sembrare la base di Elmendorf un luogo sospeso nel tempo. Il vento portava un odore di carburante bruciato e ghiaccio vecchio, mentre un convoglio di SUV neri scivolava lungo il perimetro interno, diretto verso un hangar blindato. A bordo, Donald Trump fissava il vetro oscurato senza parlare, circondato dai fedelissimi: il Segretario di Stato Marco Rubio, il vicepresidente J.D. Vance, due agenti del Secret Service e un consigliere militare in abiti civili. L’aria nell’abitacolo era tesa, quasi elettrica, e ogni tanto qualcuno scorreva sul tablet le ultime note dell’intelligence. Nella stessa ora, dall’altra parte della base, un Il-96 presidenziale russo toccava terra con una manovra impeccabile. Vladimir Putin scese dalla scaletta con passo fermo, il volto privo di qualsiasi emozione. Dietro di lui, il ministro degli Esteri Sergej Lavrov e il consigliere Yuri Ushakov, mentre un piccolo esercito di guardie del FSO si disponeva in formazione. L’atmosfera non era quella di un normale incontro diplomatico: nessun sorriso, nessuna stretta di mano cerimoniale davanti ai fotografi. Le due delegazioni si avvicinarono solo fino al punto stabilito dal protocollo, lasciando tra loro uno spazio neutro, un corridoio invisibile che separava due mondi ostili. Gli americani controllavano ogni centimetro dell’hangar, i russi ogni passo di Putin. Era un equilibrio fragile, ma calcolato al millimetro. L’incontro era stato definito pubblicamente come un “listening exercise”: Trump avrebbe ascoltato, Putin avrebbe parlato. Nessuno si aspettava un accordo immediato, e ufficialmente l’obiettivo era solo “valutare le intenzioni del presidente russo” sulla guerra in Ucraina. Ma dietro questa facciata, nelle stanze più sicure della Casa Bianca, si parlava di un’opzione che fino a poche ore prima era rimasta ipotetica: l’arresto di Putin. Le prove raccolte da una cellula dell’intelligence militare americana indicavano che l’aereo presidenziale russo trasportava materiale sottratto durante un’operazione segreta a Odessa: hard disk, documenti classificati e frammenti di sistemi di guida per missili. Non era solo una violazione di sanzioni, ma un atto che, se confermato, poteva essere qualificato come crimine contro la sicurezza nazionale USA. L’informazione era arrivata a Rubio meno di un’ora prima dell’incontro, codificata nel canale criptato “Orion”. Trump ne era stato informato durante il tragitto verso l’hangar, e aveva reagito con un silenzio glaciale.

Il colloquio riservato e il punto di rottura

La sala scelta per il faccia a faccia era spoglia: un tavolo lungo, due sedie, due interpreti, un registratore che non sarebbe mai finito negli archivi pubblici. Trump iniziò guardando Putin dritto negli occhi e dicendo: “Voglio capire se sei serio”. Putin rimase immobile, poi cominciò a parlare con tono calmo di “scambi di territori a beneficio di entrambi”, di garanzie di sicurezza, di una nuova architettura di pace. Trump ascoltava, ma le dita tamburellavano impercettibilmente sotto il tavolo. Dietro lo specchio unidirezionale, Rubio e un agente dell’FBI monitoravano ogni gesto, pronti a trasmettere un segnale se arrivasse la conferma tecnica sulla natura del materiale a bordo dell’aereo russo. Dopo venti minuti, la luce verde lampeggiò: conferma positiva. Trump interruppe Putin con una frase secca: “Sai, Vlad, oggi volevo solo ascoltare. Ma c’è un problema…”. Fece un cenno quasi invisibile. Due agenti del Secret Service entrarono nella stanza, i passi misurati, lo sguardo fisso sul leader russo. Putin li fissò senza muoversi, mentre l’interprete americano si bloccava, incerto se tradurre. “Sei in territorio degli Stati Uniti” disse Trump, “e questo Paese non è parte della Corte Penale Internazionale… ma io sono il Comandante in Capo. E oggi ho deciso che violare le nostre leggi ha delle conseguenze”. Putin alzò lentamente le mani, un gesto che non era resa ma consapevolezza di essere entrato in un momento che avrebbe cambiato la storia. Le guardie del FSO russe si mossero, ma un cordone di militari americani già bloccava l’accesso. Fuori, il rombo di un C-17 Globemaster pronto al decollo copriva ogni voce. Nell’hangar, l’aria era diventata pesante come in un sottomarino in avaria. La notizia cominciò a circolare in meno di dieci minuti, dapprima nei canali riservati tra ambasciate e poi, come una crepa in un vetro, nelle agenzie stampa. A Bruxelles, Parigi e Berlino le linee di emergenza squillavano senza sosta. A Mosca, il Cremlino ordinava la mobilitazione immediata di forze strategiche nel Pacifico. In Ucraina, Zelensky parlava in diretta: “Oggi non è finita la guerra, ma si è aperto un nuovo capitolo”. La NATO convocava un consiglio straordinario. Pechino chiedeva spiegazioni formali a Washington, mentre in Alaska il cielo sembrava più basso, come se volesse coprire tutto. Putin, scortato da quattro agenti del Secret Service, attraversò il corridoio dell’hangar sotto lo sguardo dei suoi uomini, trattenuti da soldati americani armati. Prima di salire sulla rampa del C-17 destinato a un luogo di detenzione segreto, si voltò verso Trump. In un inglese perfetto disse: “La storia non ricorderà chi ha arrestato chi… ma chi avrà l’ultima parola”. Trump non distolse lo sguardo: “Questo lo vedremo, Vlad. E lo vedrà il mondo intero”. Quel giorno l’Alaska smise di essere solo una terra di confine: diventò la linea sottile su cui l’intero ordine mondiale iniziò a camminare, mentre il resto del pianeta tratteneva il fiato in attesa della prossima mossa.

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