
Quel tappeto rosso steso davanti a Vladimir Putin non è stata diplomazia. È stata sottomissione. È stata la resa morale di un Occidente che finge di difendere i suoi valori e invece li calpesta, inginocchiandosi davanti al carnefice. Accogliere il dittatore russo come un capo di Stato rispettabile, sorridergli, portarlo in giro nella limousine presidenziale, è stato un insulto alla storia e alla coscienza.
Si continua a morire in Ucraina, città intere vengono rase al suolo, famiglie distrutte, bambini uccisi dalle bombe. E intanto in Alaska si stende il tappeto rosso al responsabile di quella carneficina. È il mondo al contrario: chi massacra viene premiato, chi resiste viene dimenticato. È il trionfo dell’ipocrisia. È la fine della vergogna.
Donald Trump ha consegnato a Putin ciò che il Cremlino desiderava da anni: la legittimazione, la fotografia della vittoria simbolica. Non importa che il summit non abbia prodotto un accordo, perché la vera immagine è già passata: Putin non è più l’escluso, non è più l’assassino isolato, è tornato a essere accolto come un pari. Ed è questo lo scandalo.
Quel tappeto rosso non era un gesto di protocollo. Era una dichiarazione politica. Era il segnale che puoi invadere, puoi uccidere, puoi calpestare il diritto internazionale, e l’Occidente prima o poi ti restituirà gli onori. È la morte dell’idea stessa di civiltà occidentale. È uno sfregio alla democrazia. È un insulto alla memoria di chi ha creduto che l’Europa avesse imparato dal suo passato.
Oggi il mondo ha visto che si può essere accolti come re anche con le mani sporche di sangue. È questa la nuova regola: la forza vince, la morale soccombe, la libertà arretra. Quel tappeto rosso non è un dettaglio. È un monumento alla viltà.
Quel tappeto rosso non brilla di onori. Quel tappeto rosso non racconta di pace. Quel tappeto rosso non segna la diplomazia, ma la resa. È un tappeto steso sull’Europa ferita, sull’Ucraina massacrata, sulla coscienza dell’Occidente. È un tappeto che non luccica: è un tappeto rosso di sangue.