
ANCHORAGE – L’immagine dei due leader che salgono insieme sulla “Beast”, l’auto presidenziale americana blindata, doveva essere il simbolo della ritrovata intesa personale. Donald Trump aveva puntato molto su quella scenografia, convinto che la sua abilità nel rapporto diretto con Vladimir Putin potesse abbattere in poche ore il muro della guerra. Invece, dopo due ore e mezza di colloqui alla Joint Base Elmendorf-Richardson, non è arrivato alcun risultato concreto. Non un’intesa, non una road map, non un impegno scritto o verbale. Soprattutto non il cessate il fuoco che il presidente americano aveva promesso entro le prime 24 ore della sua presidenza.
Il pranzo di gala preparato per l’occasione, studiato per suggellare l’accordo con la ritualità delle grandi occasioni diplomatiche, è rimasto intatto nei piatti di portata. I discorsi sull’energia, sugli scambi commerciali, su possibili aperture economiche sono stati rimandati a data da destinarsi, perché non c’erano le condizioni per parlarne. La priorità, l’obiettivo dichiarato, era fermare la guerra in Ucraina. E su questo Putin ha ribadito la sua linea di fermezza, senza concedere nulla. Ha ottenuto, anzi, un risultato opposto: mostrarsi di nuovo come interlocutore internazionale legittimo, rompendo l’isolamento che lo aveva colpito dopo l’invasione e guadagnando tempo prezioso per continuare la sua offensiva militare.
La delusione dopo la rinuncia alla conferenza stampa
La portata del fallimento è stata certificata dalla rinuncia alla conferenza stampa congiunta. Un dettaglio che in diplomazia vale quanto un documento firmato. Se Trump avesse potuto rivendicare un successo, anche minimo, lo avrebbe fatto come dopo il vertice Nato in Olanda, quando aveva parlato per ore celebrando l’impegno degli alleati a portare al 5% del Pil le spese per la difesa. Stavolta no. Solo una dichiarazione di circostanza, tanto vaga quanto inefficace: “Non c’è un accordo finché non c’è un accordo”. Una frase che non copre la realtà: l’obiettivo principale è stato mancato.
Lo stesso Trump ha cercato di mascherare la delusione parlando di “incontro produttivo”, spiegando che “molti punti sono stati concordati” e che “ne mancano pochissimi”. Ma l’unico davvero significativo, quello del cessate il fuoco, è rimasto irrisolto. E, senza quel passaggio, ogni altra formula diventa pura retorica. Il presidente americano si era sbilanciato in volo sull’Air Force One, dichiarando che avrebbe saputo in pochi minuti se Putin fosse serio. Aveva perfino lasciato intendere che si sarebbe alzato immediatamente dal tavolo in caso contrario. Ma non lo ha fatto. E questo alimenta la sensazione che sia stato lui a subire la tattica dell’ex agente del Kgb, che conosce bene l’arte di logorare l’avversario e piegarlo alle proprie esigenze.
A conti fatti, le due ore e mezza di colloqui sono state meno della metà delle cinque ore previste dall’agenda americana. Ma anche in quel tempo ridotto, la sproporzione nei risultati è evidente: Putin ha ottenuto il riconoscimento scenico di un invito sul tappeto rosso e la possibilità di mostrarsi in pubblico accanto al presidente degli Stati Uniti, mentre Trump torna a Washington con le mani vuote.
L’errore di fondo
Il vero problema è che l’iniziativa del vertice è partita dalla Casa Bianca. È stato Trump ad accettare le condizioni e ad accogliere la richiesta del Cremlino, nella convinzione di poterla trasformare in vittoria personale. Il risultato è stato l’opposto: ha offerto a Putin una vetrina internazionale e ha consegnato a se stesso la responsabilità del fallimento. Ora la domanda è se cambierà linea o continuerà a inseguire un dialogo che appare sempre più come una trappola.
Gli alleati europei, che attendevano segnali forti dall’Alaska, hanno assistito a uno spettacolo deludente. La cancelliera tedesca e il presidente francese avevano espresso scetticismo sull’utilità dell’incontro, e adesso trovano conferma delle proprie preoccupazioni: la strategia di Trump rischia di rafforzare il nemico comune invece che indebolirlo. Anche a Kiev la delusione è palpabile. Il presidente Zelensky, escluso dal vertice, contava su una pressione diretta degli Stati Uniti su Mosca, ma vede invece consolidarsi l’idea che Putin possa guadagnare tempo fino al crollo delle linee ucraine.
Il nodo ora sta nelle scelte immediate. Trump può ancora reagire imponendo sanzioni secondarie durissime, colpendo i partner commerciali che aiutano la Russia ad aggirare le restrizioni, e accelerando le forniture di armi e sistemi difensivi a Kiev. Ma si tratta di una strada che finora ha esitato a imboccare, preferendo la ricerca di un’intesa personale con Putin. Continuare su questa linea significherebbe esporsi ad altre sconfitte diplomatiche, mentre ammettere l’errore e cambiare strategia potrebbe ridargli credibilità agli occhi del Congresso e degli alleati.
L’impressione è che il vertice di Anchorage abbia segnato un passaggio decisivo non solo per la guerra in Ucraina, ma per la stessa presidenza di Trump. Il leader americano voleva dimostrare di poter chiudere il conflitto in tempi brevi grazie al proprio carisma, invece si ritrova oggi a inseguire un risultato che sfuma. Nel frattempo Putin torna a Mosca con il bottino politico di una scena internazionale che lo ritrae come pari interlocutore di Washington, e con il tempo necessario per continuare la sua offensiva militare. È un bilancio che, al di là delle dichiarazioni di facciata, pesa come una sconfitta diplomatica netta per gli Stati Uniti.