
C’è un punto di partenza inevitabile: senza Pippo Baudo il Festival di Sanremo non sarebbe ciò che è oggi. Sarebbe forse rimasto un concorso canoro importante, ma non l’evento identitario della nazione, non il rito televisivo capace di fermare l’Italia intera per una settimana. Pippo, semplicemente, ha scritto la grammatica del Festival, e l’ha fatto dentro quell’edificio che ormai è diventato il simbolo stesso della sua carriera: il Teatro Ariston.
Quando salì per la prima volta sul palco come conduttore, nel 1968, Baudo era ancora un volto giovane, con la sicurezza elegante di chi sapeva già di poter reggere quella responsabilità. E negli anni a seguire non solo presentò, ma rifondò Sanremo. Ne inventò i tempi, i ritmi, persino le polemiche. Lo difese nei momenti di crisi e lo rilanciò quando sembrava avviato al declino. Lo trasformò da semplice vetrina musicale a spettacolo televisivo totale, capace di unire canto, costume, comicità e attualità.
L’uomo che ha incarnato il Festival
Baudo non si limitò a fare il presentatore: era il direttore d’orchestra invisibile di ogni dettaglio. Scopriva talenti, gestiva le tensioni dietro le quinte, dominava le dirette come un condottiero. Fu lui a imporre la centralità delle canzoni, ma anche a comprendere che la televisione chiedeva altro: ritmo, sorprese, emozioni collettive. Non a caso, nella memoria di generazioni di italiani, il volto di Sanremo coincide con il suo sorriso rassicurante, la sua voce ferma, la sua capacità di dire la parola giusta nel momento più delicato.
E quando il Festival rischiava di trasformarsi in routine, Pippo lo reinventava. Gli diede dignità popolare e insieme prestigio culturale. Era il ponte tra l’Italia delle vecchie orchestrine e quella delle grandi produzioni televisive. L’Ariston, in quegli anni, diventò molto più di una sala teatrale: divenne la cattedrale laica della musica italiana, consacrata dalla sua guida.
Un atto di giustizia simbolica
Oggi, dopo la sua scomparsa, è naturale chiedersi come la memoria di Pippo possa essere custodita. Una statua? Una targa? Troppo poco. L’unico omaggio all’altezza della sua eredità sarebbe ribattezzare l’Ariston come Teatro Pippo Baudo. Non per cancellarne la storia, ma per completarla. Perché Ariston è stato il contenitore, ma Baudo è stato l’anima. È come se lo stesso edificio avesse preso vita grazie a lui, alla sua autorevolezza, alla sua passione contagiosa.
Chiamarlo Teatro Pippo Baudo significherebbe ricordare che quel palcoscenico non ha solo ospitato canzoni: ha ospitato la costruzione di un immaginario nazionale. Sarebbe un atto di giustizia simbolica verso l’uomo che più di ogni altro ha reso Sanremo eterno. E sarebbe anche un modo per consegnare ai giovani il messaggio che la televisione può essere grande quando a guidarla c’è competenza, carisma e amore autentico per il pubblico.
Pippo Baudo non appartiene solo alla Rai o al Festival, ma all’Italia. Intitolargli il teatro che ha reso immortale non è nostalgia: è memoria viva, è riconoscere che il presente si regge sulle spalle di chi ha saputo dare forma al futuro. E quel futuro, a Sanremo, porta un nome solo: Pippo.