Non intende fermarsi, né tantomeno lasciare il ring. Imane Khelif, la pugile algerina che alle Olimpiadi di Parigi 2024 conquistò un discusso oro, ha deciso di sfidare nelle aule del Tribunale arbitrale dello sport (Tas) la decisione della World Boxing Association (Wba) di introdurre i test genetici obbligatori per l’identificazione del sesso. La campionessa, recentemente esclusa dalle competizioni per essersi rifiutata di sottoporsi all’esame, ha presentato ricorso dopo che il Tas le ha negato la sospensiva in attesa del giudizio.
Secondo la federazione mondiale, i test «garantiscono la sicurezza di tutti i partecipanti e condizioni competitive eque tra uomini e donne». Una scelta che, formalizzata lo scorso maggio, sta già incidendo sulla carriera della 25enne algerina, che ha dovuto rinunciare a tornei come l’Eindhoven Box Cup. Non è ancora chiaro se, in quell’occasione, Khelif non abbia superato le verifiche o se semplicemente abbia rifiutato di effettuarle.
Il nodo centrale resta lo stesso: la sua presenza sul ring divide. La bufera era esplosa già durante i Giochi di Parigi 2024, quando l’italiana Angela Carini, tra le lacrime, fu costretta al ritiro nel match d’esordio contro l’algerina. L’episodio aveva alimentato un’ondata di accuse e sospetti sull’identità di genere di Khelif, definita da alcuni «transessuale» o «uomo». In realtà la pugile è intersex, condizione che ora la porta a combattere una nuova sfida: non più soltanto sul ring, ma nelle sedi giudiziarie sportive.
Con questo ricorso, Imane Khelif si fa carico di un tema che va oltre la sua carriera: la battaglia contro test considerati da molti discriminatori e potenzialmente in grado di segnare la fine del suo futuro da professionista.
