
Il 24 settembre 2025 uscirà nelle librerie per l’editore Santelli “Mario Draghi. La speranza non è una strategia”, il debutto letterario della giornalista Cristina La Bella. La giovane frusinate, già firma tra gli altri di Urban Post e de La Ragione, ha scelto per la sua opera prima un autentico “gigante” cercando di raccontarne i due volti, il pubblico ed il privato, oltre che la parabola (non ancora conclusa) di uomo delle Istituzioni. Mario Draghi è da molti considerato una delle ultime risorse importanti che il nostro Paese ha potuto giocarsi nell’ultimo decennio. Per capire meglio cosa c’è dietro questa biografia, così inedita nei toni e profonda nell’analisi, abbiamo posto alcune domande all’autrice, che peraltro ben conosciamo per aver fatto un bel pezzo di strada giornalistica insieme.

D: Cristina, prima di tutto grazie per la disponibilità e complimenti per il tuo libro in uscita, il tuo primo libro! Come ci si sente a debuttare in libreria con un “gigante” come Draghi?
R: Grazie a te per l’opportunità e per i complimenti che spero di meritare. “Mario Draghi. La speranza non è una strategia” arriverà in libreria il 24 settembre, ma è già disponibile in pre-ordine sul sito ufficiale della Casa Editrice Santelli, a cui va la mia immensa gratitudine per aver creduto in questo progetto. Provo un misto di emozione, paura e incoscienza. Debuttare con un personaggio come Draghi significa accettare la sfida di raccontare un simbolo che tutti credono di conoscere, ma che pochi hanno visto davvero da vicino. La mia scommessa è stata proprio questa: restituire un ritratto più vicino all’uomo.
D: Abbiamo lavorato molto insieme su questi temi, ma ancora oggi mi sfugge il vero motivo per cui hai scelto “lui”, Mario Draghi.
R: Perché Draghi è una figura centrale della nostra storia recente. Ha salvato l’euro, ha guidato l’Italia in uno dei momenti più difficili della pandemia, ha dato un’impronta al dibattito europeo, ma al tempo stesso è un personaggio percepito come distante, freddo, quasi algido. Io volevo capire chi si celasse dietro quella maschera istituzionale, che storia personale si nascondeva. Come ben sai, ho seguito da giornalista tutto il suo mandato a Palazzo Chigi per «Urbanpost». Ed è giusto che i lettori, direttore, lo sappiano: se questo libro esiste, la colpa è un po’ tua. Il mio interesse per Draghi nasce, infatti, per caso. Per serendipità direi. Era il 18 agosto del 2020, quando Draghi pronunciò al Meeting di Rimini il famoso discorso sul «debito buono» e «debito cattivo». Quel giorno in redazione la collega di politica ed economia non c’era e tu mi chiamasti in fretta: «Sta per parlare Draghi alla cerimonia di inaugurazione, ricavane un pezzo. Grazie, a dopo». Non lo nascondo, inizialmente pensai che sarebbe stata una noia mortale, ma appena cominciò la diretta rimasi colpita. Quelle parole erano semplici e vere, una carezza sul cuore. Da allora mi sono appassionata al caso Draghi e oggi sono convinta che sia l’ultimo grande interprete di una stagione europea che rischia di spegnersi.
D: Nelle biografie c’è sempre un pericolo e lo dici tu stessa nell’introduzione: quello di “innamorarsi” del soggetto. Come sei riuscita a mantenere il giusto distacco che si percepisce nella lettura del libro?
R: Forse con metodo e disciplina. Mi sono affidata a discorsi, documenti, testimonianze,articoli, interviste, biografie già esistenti su di lui, senza lasciarmi travolgere dalla fascinazione del personaggio. Draghi ha luci e ombre, come tutti: il mio scopo era mostrarle entrambe. Avere rispetto per qualcuno non significa rinunciare allo spirito critico. Poi nella scrittura, come nella vita, ho sempre potuto contare sull’ironia, che considero l’abito elegante dell’intelligenza. È di grande aiuto, specie quando si vuole ritrarre un personaggio noto a tutto tondo, senza scivolare nell’agiografia o nella parodia.
D: Il titolo del libro è anche una delle enunciazioni più forti, ma non certo l’unica forte, dell’ex premier e presidente BCE. Perché l’hai scelta?
R: Inizialmente aveva un altro titolo, ma non mi convinceva. Poi una notte ho avuto quest’idea: riprendere un concetto che Draghi aveva espresso nel 2014, quando da presidente della Bce chiese ai paesi dell’Eurozona un ulteriore sforzo comune per evitare di piombare nuovamente in recessione. È una frase che, in un certo senso, riassume il suo approccio alla vita e alla politica economica: pragmatismo, responsabilità, concretezza. Mi sembrava la sintesi migliore di quello che Draghi rappresenta, oggi più che mai. Lui è il contrario del wishful thinking: non si accontenta di sperare che le cose vadano bene, pretende un piano, delle misure concrete. Recentemente, al Meeting di Rimini 2025, lui stesso ha definito il suo un europeismo molto «coi piedi per terra». Si può dire che il motto «la speranza non è una strategia»sia diventato quasi un marchio della sua leadership, per questa ragione mi è sembrata la frase più adatta per raccontare il senso del libro. Perché non «Whatever it takes»? È una formula magica bellissima, ma troppo inflazionata. (ride)
D: È stato più difficile raccontare il Draghi pubblico o il Draghi privato? Per quest’ultimo, se puoi dircelo, che fonti hai utilizzato?
R: Di istinto ti direi quello privato, ma riflettendoci bene forse è stato altrettanto complicato tracciare un ritratto del Draghi pubblico. Difficilissimo in quest’ultimo caso perché la mole di materiale è sterminata: occorre selezionare, scegliere, rinunciare a tanto. Il Draghi privato è più sfuggente: lui ha sempre difeso con forza la sua sfera personale. Lì ho dovuto affidarmi a testimonianze, a ricostruzioni di colleghi, amici, studiosi, a vecchie interviste e a tracce lasciate lungo il percorso. Il libro riporta innumerevoli indizi che messi insieme raccontano l’uomo.
D: Il “coraggio di cambiare”, è anche il titolo di uno dei capitoli centrali del libro. Draghi l’ha avuto fino in fondo?
R: Credo di sì e l’ha dimostrato nei momenti chiave della sua carriera. Ha accettato di guidare un Paese in piena emergenza, di prendersi la responsabilità di decisioni impopolari. Nel discorso di Rimini del 2020 di cui ti parlavo prima, Draghi cital’economista John Maynard Keynes, ricordandoci che «quando i fatti cambiano, io cambio idea». Questo non significa incoerenza, ma coraggio di mettersi in discussione, di non restare prigioniero delle proprie convinzioni. È una qualità rara, soprattutto in politica. Per dirne una: nella sua tesi di laurea Draghi scrisse che la moneta unica era una sciocchezza, negli anni però, come sappiamo, ha abbandonato il suo euroscetticismo.
D: Alla luce anche dell’ultimo recente intervento al Meeting di Rimini, come è cambiata la visione dell’Europa di Mario Draghi? Siamo già oltre a quel “L’Europa deve imparare a crescere da sola?”
R: È un’urgenza, siamo oltre sì. Oggi Mario Draghi insiste sul fatto che non possiamo vivere di rendita: l’Europa deve crescere, assumersi rischi, giocare da adulta nel mondo globale. L’Ue deve smetterla di essere spettatrice e correre su energia, difesa, tecnologia, sicurezza, altrimenti rischia, come ha spiegato l’ex presidente del consiglio, l’irrilevanza.
D: Lui dice di non considerarsi “il migliore” e che non “esiste la soluzione perfetta”. Ma esistono strategie concrete ed efficaci, che rendono le speranze certezze: è questo il cuore del “riformismo alla Draghi”?
R: Esattamente. Non la ricerca della perfezione, ma la capacità di costruire soluzioni concrete che funzionano. Che poi è quello che la gente si aspetta dalla politica. Draghi non ha mai usato slogan, negli anni non si è preoccupato di dover piacere a tutti i costi. Promesse a vuoto? Bandierine da piantare? No, il suo unico scopo quello di portare a compimento strategie utili al Paese.
D: C’è un capitolo del tuo libro proprio su questo tema, dal titolo “Sono un uomo e un nonno al servizio delle istituzioni”. Draghi può ancora essere davvero una risorsa per il nostro paese? E se sì, con quale ruolo?
R: Assolutamente sì, se lo vorrà. Non so se avrà di nuovo un incarico istituzionale, ma la sua voce resta preziosa, in Italia e soprattutto in Europa. Il capitale di competenze che ha accumulato non si può disperdere. Ricordo che un giorno, rispondendo alla domanda di un giornalista mi pare de «Il Foglio» che gli chiedeva cosa avrebbe fatto dopo Palazzo Chigi, disse tranchant: «Tanti, anche politici, mi candidano a tanti posti in giro per il mondo mostrando una sollecitudine straordinaria. Io li ringrazio, ma se per caso decidessi di lavorare dopo questa esperienza, un posto di lavoro me lo trovo anche da solo», escludendo una sua discesa in campo alle elezioni. La stizza con cui rispose lasciò intendere che non gli faceva (e fa) piacere essere tirato per la giacchetta.Vedremo, oggi vi è solo una certezza: anche solo la sua voce continua ad orientare il dibattito.
D: Noi lo sappiamo perché… ma dicci tu perché tutti dovrebbero leggere “Mario Draghi. La speranza non è una strategia”.
R: Perché non è l’ennesimo saggio tecnico, ma un viaggio nella vita di un uomo che ha segnato la nostra epoca. È un modo per capire meglio l’Italia e l’Europa degli ultimi decenni, ma anche per scoprire che dietro il banchiere c’è stato un ragazzo orfano, uno studente universitario, un professore, un marito, un nonno. È stato spesso solo davanti a scelte difficili. E penso che in quella solitudine molti possano riconoscersi.
D: La domanda che non ti ho fatto qual è?
R: Direi nessuna, sei stato perfetto.
D: Che dici: Mario Draghi ci leggerà?
R: Chissà. Ma sai che oggi è il suo compleanno? Gli auguri facciamoglieli, magari ci legge davvero. Comunque, io per non sbagliare, mi sono portata avanti: ho scritto un libro su di lui. Un regalo che dura più di una torta o di un mazzo di fiori. Originale, no?