
La pace tra Russia e Ucraina non arriva e il barometro strategico del continente segna perturbazione. In Francia ha fatto discutere la circolare inviata a metà luglio dalle agenzie sanitarie regionali: su mandato del ministero della Salute, si chiede di predisporre strutture in grado di accogliere un alto numero di militari feriti, in coordinamento con Difesa, Nato e UE. Obiettivo operativo dichiarato: ricovero “di 100 pazienti al giorno per 60 giorni consecutivi” con “picchi fino a 250 al giorno per 3 giorni”. Pura prevenzione, ridimensionano a Parigi. Ma il segnale politico resta.
Nel frattempo la Germania ha varato la riforma del servizio militare. Per ora registrazione su base volontaria tramite questionario a 18 anni per ragazze e ragazzi; dal luglio 2027 visita di leva obbligatoria per gli uomini. Più a est, la Polonia ristruttura rifugi anti-aerei — soprattutto a Varsavia — e lavora sulle scorte alimentari. A marzo il ministro della Difesa polacco ha annunciato l’intenzione di ritirarsi dalla Convenzione di Ottawa sulle mine antiuomo; intenzione condivisa da Estonia, Lettonia, Lituania e Finlandia. Decisioni che dovranno passare dai parlamenti, ma che bastano a muovere l’ago della bussola strategica del continente.
Segnali dal fronte interno europeo
Al netto delle rassicurazioni, la circolare francese parla il linguaggio della resilienza nazionale: pianificazione sanitaria, mobilitazione logistica, triage e assorbimento di casualties su scala prolungata. È l’altra faccia della deterrenza: non solo mezzi e munizioni, ma capacità di reggere l’urto sul fronte interno. La domanda implicita è semplice: quanto è pronto l’ecosistema civile europeo — ospedali, ambulanze, reti di infrastrutture critiche, approvvigionamenti — a sostenere un picco di lungo periodo?
Berlino, con la nuova leva selettiva, tenta di ricucire un vuoto accumulato in due decenni di riduzioni. La registrazione su base volontaria serve a mappare il bacino umano disponibile per l’esercito federale e a riattivare una cultura della difesa diffusa, senza riaccendere subito il dibattito più divisivo sulla coscrizione generalizzata. Varsavia, invece, ragiona già in termini di prontezza territoriale: rifugi, procedure, allerta. Sono due approcci complementari alla stessa esigenza di fondo, quella di un’Europa che non dà più per scontato il riparo dell’“età post-storica”.
Che cosa significa per l’Italia e per l’UE
L’insieme dei segnali suggerisce tre linee di lettura. Primo: la guerra in Ucraina ha reso strutturale il passaggio dall’“economia di pace” alla “economia di guerra” in senso lato, cioè un’allocazione di risorse stabili per munizioni, produzione e manutenzione, con tempi lunghi e catene di fornitura sicure. Questo implica decisioni politiche su bilancio, priorità industriali e regole del mercato interno. Non è più un picco emergenziale, è un plateau.
Secondo: la difesa europea continua a esistere soprattutto come somma di difese nazionali coordinate in Nato. La circolare francese, la riforma tedesca e i piani polacchi sono tasselli di un mosaico che si compone fuori da un’unica cabina di regia. Serve un’architettura che trasformi la cooperazione in interoperabilità effettiva: standard comuni, procurement congiunto, stock condivisi, trasporto militare rapido lungo i corridoi tra Baltici e Mar Nero. Altrimenti il rischio è un arcipelago di iniziative parallele, costose e parzialmente ridondanti.
Terzo: il fronte della legittimazione democratica. Parlare di leve, rifugi e mine tocca nervi scoperti dell’opinione pubblica europea. La scelta polacca di annunciare l’intenzione di lasciare Ottawa — pur subordinata ai parlamenti — è un test della tolleranza politica verso misure percepite come “dure” ma ritenute da alcuni necessarie in un contesto di minaccia alta. Da qui la prudenza francese nel definire “prevenzione” il piano sanitario e l’approccio graduale tedesco.
La dimensione tecnologica
C’è poi la dimensione tecnologica. La guerra contemporanea si combatte su più piani: convenzionale, cyber, spazio, ibrida. Preparare la sanità significa anche prevedere attacchi informatici agli ospedali, proteggere reti e data center, garantire elettricità e acqua in continuità. La sicurezza delle infrastrutture critiche non è meno centrale dei sistemi d’arma: se cade la rete, la capacità di cura e comando si degrada in ore.
La logistica è il vero moltiplicatore di potenza. Accogliere “100 pazienti al giorno per 60 giorni” vuol dire assicurare trasporti, sangue, farmaci, personale e posti letto coordinati su base nazionale e transfrontaliera. In un contesto Nato, significa sincronizzare evacuazioni, priorità e percorsi con gli alleati. Qui la UE può fare la differenza: standard sanitari comuni, fondi per la protezione civile, corridoi “dual-use” che servano tanto il commercio quanto le esigenze militari.
L’industria della difesa
Il capitolo industria della difesa resta decisivo. Senza una base produttiva in grado di sostenere l’attrito — artiglieria, missili, componentistica — ogni pianificazione sanitaria diventa un paracadute senza aereo. L’Europa ha iniziato a riavviare linee, ma la “scala” è il punto: pochi grandi player non bastano se non sono circondati da una filiera di pmi e competenze che regga sul medio periodo. E serve una domanda prevedibile: contratti pluriennali, pagati e programmati.
Accanto al “duro”, c’è il “morbido” della resilienza sociale. Rifugi e siringhe funzionano se la cittadinanza sa cosa fare: piani di comunicazione, esercitazioni civili, alfabetizzazione alla sicurezza senza allarmismi. Le democrazie tengono quando i cittadini percepiscono un senso di equità nello sforzo richiesto e vedono risultati tangibili: ospedali che funzionano, tempi rapidi nelle forniture, trasparenza su costi e priorità.
Il quadro, insomma, è quello di un continente che si attrezza senza voler normalizzare la guerra. La Francia parla di prevenzione, la Germania di selettività, la Polonia di prontezza. Tre parole-chiave che, insieme, dicono la stessa cosa: l’Europa si sta muovendo dal “se” al “quando”. La scommessa è farlo con lucidità strategica, evitando sia l’illusione pacifista che immobilizza, sia la corsa disordinata che spreca risorse.
Per l’Italia, il messaggio è duplice. Sul piano esterno, spingere per una interoperabilità europea reale dentro la Nato, con investimenti credibili e continui. Sul piano interno, lavorare sulla resilienza: ospedali, scorte, reti energetiche, cyber e protezione civile. È la grammatica della sicurezza nel XXI secolo: non decide se ci sarà la tempesta, ma può stabilire quanta pioggia siamo in grado di sopportare senza allagarci.