
Il tema dell’immigrazione irregolare continua a dividere il Paese, mettendo di fronte politica e magistratura in una battaglia che intreccia sicurezza, diritti e gestione delle emergenze. Al centro del nuovo scontro vi è la norma varata dal governo Meloni lo scorso marzo, che concedeva ai questori un margine di 48 ore per valutare se un migrante irregolare, fermato nei centri di accoglienza, rappresentasse un pericolo per la collettività.
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Una finestra temporale ridotta, che il governo aveva introdotto per evitare che, una volta liberati, soggetti già condannati potessero sparire nel nulla. Ma la Cassazione è intervenuta con un’ordinanza destinata a fare rumore: trattenere un migrante anche solo per due giorni, indipendentemente dai precedenti penali, rappresenterebbe una violazione della Convenzione europea per i diritti dell’uomo.
Il caso Ndaye e il ruolo della magistratura
La decisione della Cassazione nasce dal ricorso di Mohamed Ndaye, cittadino senegalese di 32 anni, colpito da un provvedimento di espulsione fin dal 2016. Nonostante i ripetuti rigetti delle sue domande di asilo e i numerosi precedenti penali, l’uomo non aveva mai lasciato l’Italia. All’inizio del 2024 era stato trasferito dal Cpr di Bari al centro provvisorio di Gjader, in Albania, struttura attivata in base agli accordi bilaterali tra Roma e Tirana.
La Corte d’appello di Roma, già il 4 luglio, aveva contestato la legittimità di quei trattenimenti, definendoli incostituzionali. E quando, il giorno successivo, il questore aveva disposto un nuovo decreto di fermo nei confronti di Ndaye, la Cassazione ha ritenuto che quelle ore trascorse tra il rilascio e il nuovo ordine avessero rappresentato una lesione intollerabile dei suoi diritti fondamentali.

I precedenti penali e la pericolosità sociale
Il profilo giudiziario di Ndaye, riportato negli atti del questore, è pesante. Figurano una condanna per tentato omicidio risalente al 2006, precedenti per resistenza a pubblico ufficiale, un cumulo di pene per traffico di stupefacenti e reati di furto. Una sequenza di violazioni che, secondo le autorità, dimostrava «una radicata attitudine a contravvenire alla legge» e a costituire un concreto pericolo per l’ordine pubblico.
Proprio per arginare situazioni simili, il governo aveva approvato a marzo la nuova legge che permetteva alle questure di emanare un ulteriore decreto di fermo entro 48 ore, così da impedire che irregolari con gravi precedenti tornassero liberi.
La bocciatura della Cassazione
La Cassazione, con l’ordinanza depositata il 4 settembre, ha accolto le tesi della difesa di Ndaye, giudicando la norma «in patente violazione dei principi costituzionali». L’accusa rivolta alla legge non riguarda solo il trattenimento in sé, ma anche la sua incompatibilità con i criteri di proporzionalità e con il cosiddetto «principio di ragionevolezza».
La questione ora passa alla Corte Costituzionale, chiamata a decidere se abrogare la norma e aprire così a conseguenze significative: un’eventuale conferma dell’illegittimità renderebbe possibile il rilascio di numerosi irregolari con precedenti penali, minando l’impianto legislativo costruito dal governo per rafforzare i controlli.

Le possibili conseguenze politiche e sociali
La vicenda segna un nuovo fronte di scontro tra esecutivo e magistratura, in un tema già da tempo al centro della dialettica politica. Da una parte, la volontà del governo di mantenere una linea di rigore sull’immigrazione; dall’altra, la magistratura che richiama il rispetto delle convenzioni internazionali e dei diritti fondamentali.
Il caso Ndaye, con il suo lungo elenco di reati e il braccio di ferro tra norme nazionali e trattati internazionali, rischia di diventare un precedente capace di influenzare la gestione futura dei Cpr e la politica dell’accoglienza. Un terreno fragile, dove sicurezza e legalità si intrecciano con la tutela dei diritti, alimentando un dibattito destinato a rimanere acceso ancora a lungo.