
La 18enne, di nome Saman Abbas, aveva osato sognare una vita indipendente, libera dalle catene di un matrimonio combinato e dalle rigide tradizioni della sua famiglia pachistana. Quel sogno, per i suoi genitori e i suoi parenti, era diventato un’insopportabile ribellione, un affronto così grave da meritare una punizione estrema. La Corte d’assise d’appello di Bologna ha descritto questo orribile epilogo non come un gesto disperato o un delitto d’impeto, ma come un atto lucidamente pianificato, un’eliminazione fredda e calcolata di una vita giovane che non si voleva conformare.
Le motivazioni della sentenza, che hanno portato alla condanna all’ergastolo per i genitori di Saman e per due suoi cugini, e a 22 anni di reclusione per lo zio, dipingono un quadro agghiacciante di una famiglia trasformata in un “clan”, dove l’onore e le tradizioni sono stati anteposti alla vita di una figlia.
Un omicidio premeditato
La storia di Saman non è un tragico errore, ma il risultato di un piano macabro e ben congegnato. I giudici hanno stabilito che l’omicidio non è stato un evento improvviso, ma un crimine «programmato per un congruo lasso di tempo». Questa premeditazione è stata la chiave della sentenza, dimostrando che la decisione di uccidere Saman non è nata da un raptus di follia, ma è maturata nel tempo, come una punizione inevitabile per la sua disobbedienza. La sua colpa, agli occhi della sua famiglia, era stata quella di scegliere la propria strada, di voler vivere la sua vita in Italia, con il suo fidanzato, in un modo che ritenevano in contrasto con i loro «valori etici e il credo religioso».

La ribellione di Saman è stata vista come una minaccia diretta all’autorità e all’onore della famiglia. Per loro, Saman era diventata il simbolo di una dissonanza intollerabile tra le loro tradizioni e la libertà che lei bramava. La ragazza, appena maggiorenne, aveva avuto il coraggio di rifiutare il matrimonio combinato, una pratica che, per la famiglia, rappresentava una garanzia di stabilità e continuità. La sua determinazione a essere autonoma ha scatenato la vendetta di un nucleo familiare che si è sentito tradito e umiliato. I giudici hanno scritto che questa ribellione si è trasformata in una «determinazione omicida fredda e condivisa».
Un’esecuzione condivisa
L’omicidio di Saman, secondo i giudici, è stato un atto collettivo, in cui ogni membro del “clan familiare” ha avuto un ruolo. La sentenza parla di un’esecuzione pianificata e voluta da tutti, con i genitori come mandanti e lo zio e i cugini come esecutori materiali. L’ergastolo per i genitori e per i cugini e la pena di 22 anni per lo zio sono la dimostrazione che la giustizia ha riconosciuto la piena responsabilità di ogni membro del gruppo. Non si è trattato di un singolo atto di violenza, ma del culmine di una scelta di gruppo di eliminare un membro che non era più disposto a rispettare le regole. Questo caso ha sollevato un velo sulle pratiche culturali che possono portare a tali atrocità, evidenziando il conflitto tra tradizione e diritti individuali.