
Ci sono silenzi che pesano più delle parole, che riempiono le stanze come nebbia densa e invisibile. Silenzi che seguono urla, pianti, rotture, e che restano lì, ostinati, anche quando tutto sembra tornato normale. È in quei silenzi che spesso si nascondono le ferite più profonde, quelle che non si vedono ma che segnano per sempre chi le porta dentro.
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In ogni storia di violenza, c’è un prima e un dopo. Il prima fatto di abitudini, di gesti quotidiani, di quella apparente tranquillità che spesso inganna anche chi ci vive dentro. E poi c’è il dopo, che arriva all’improvviso e spazza via ogni cosa: lascia soltanto macerie, dolore e la consapevolezza amara che nulla sarà più come prima.
Il pestaggio e la sentenza
Il dopo, per Lucia Regna, è arrivato il 28 luglio 2022, quando l’uomo con cui aveva condiviso vent’anni di vita l’ha colpita per sette interminabili minuti, lasciandole il volto distrutto e un nervo oculare lesionato. È accaduto a Torino, dove il tribunale ha poi assolto l’uomo dall’accusa di maltrattamenti, condannandolo soltanto a un anno e sei mesi per lesioni personali gravi.
Secondo il giudice Paolo Gallo, che ha firmato le motivazioni della sentenza, quel pestaggio non sarebbe stato “un accesso d’ira immotivato”, ma “uno sfogo riconducibile alla logica delle relazioni umane”. Una definizione che ha lasciato sgomenti familiari, opinione pubblica e attivisti, riaccendendo il dibattito sulla violenza di genere e sulla sua trattazione nelle aule giudiziarie.

Le ferite e la ricostruzione
Il corpo di Lucia Regna è stato ricomposto con 21 placche di titanio, dopo un ricovero durato 90 giorni. I segni sul volto sono diventati cicatrici, ma quelli nell’anima restano profondi e difficili da rimarginare. Dopo essere uscita dall’ospedale, sapendo che l’ex compagno era libero, ha confessato di essersi pentita di aver denunciato, un sentimento che racconta tutta la sfiducia nel sistema giudiziario provata da molte vittime.
Nel frattempo, i due figli della donna, costituiti parti civili, hanno scelto di reagire: lo scorso 25 novembre, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, hanno affisso a scuola la foto del volto tumefatto della madre con la scritta “Donne, denunciate subito”, come monito e speranza per chi vive situazioni simili.
Le polemiche sulla decisione
La pm Barbara Badellino aveva chiesto 4 anni e mezzo di reclusione, ma il tribunale ha accolto una lettura più indulgente verso l’imputato, definito “sincero e persuasivo”. Una scelta che ha provocato dure reazioni: l’avvocata di parte civile Annalisa Baratto ha dichiarato che la sentenza “viviseziona e mortifica la vittima, mentre è indulgente verso l’uomo che le ha sfondato il volto”.
Anche l’avvocato della difesa, Giulio Pellegrino, è intervenuto, sostenendo che si tratta di “un caso esemplare di attenzione e rigore nell’analisi dei fatti e delle prove”. Ma la percezione pubblica è stata ben diversa: sui social si parla di “giustizia che giustifica la violenza” e di “vittimizzazione secondaria”, con il timore che simili pronunce possano disincentivare le denunce e normalizzare la violenza domestica.

Una ferita che riguarda tutti
La storia di Lucia Regna non è solo quella di una donna sopravvissuta a un pestaggio, ma il simbolo di una battaglia più grande: quella per il riconoscimento della violenza di genere come crimine e non come sfogo comprensibile. Ogni parola usata in una sentenza pesa, e in questo caso rischia di diventare un precedente pericoloso, un messaggio distorto a chi oggi soffre in silenzio.
Perché nessuna ferita può essere compresa, giustificata o normalizzata. E nessun volto sfondato dovrebbe mai essere considerato parte della “logica delle relazioni umane”.