
“Potrebbe essere stato un errore”. Con questa frase Donald Trump ha liquidato l’incursione di droni russi nello spazio aereo della Polonia. Non un atto di guerra, non un pericolo per la NATO, non la violazione della sovranità di un alleato: semplicemente un possibile “errore”. È la frase che svela tutto. Non solo l’approccio del presidente americano, ma la verità più scomoda: agli Stati Uniti dell’Europa importa sempre meno.
Se quei droni fossero caduti sull’Alaska, la reazione sarebbe stata completamente diversa. Avremmo visto riunioni di emergenza al Pentagono, dichiarazioni infuocate di senatori e governatori, aperture dei telegiornali americani con parole come “atto ostile” e “provocazione intollerabile”. Non si sarebbe parlato di errore. Si sarebbe parlato di risposta. Perché quando è toccata l’America, ogni intrusione è un casus belli. Quando è toccata l’Europa, diventa al massimo un fastidio tecnico.
L’Europa ridotta a periferia della sicurezza
Il problema non è Trump. Il problema è l’America, nel suo insieme. È un Paese che da decenni considera la sicurezza europea come un capitolo subordinato della propria strategia globale. Una pedina utile, certo, ma sacrificabile quando l’interesse primario è altrove. È già accaduto in Medio Oriente, è accaduto in Afghanistan, sta accadendo ora con la guerra in Ucraina. L’Europa viene sostenuta finché serve, ma mai difesa per davvero come difenderebbe se stessa.
E così Varsavia vale meno di Anchorage. I confini orientali della NATO valgono meno di un lembo remoto dell’Alaska. Questa è la gerarchia implicita che la frase di Trump ha reso esplicita. Non esiste un patto di difesa collettiva che valga quanto il riflesso patriottico americano: difendere se stessi prima di tutto, e solo dopo, eventualmente, gli altri.
Una lezione amara per gli europei
Molti in Europa hanno finto di non capire. Hanno preso quella dichiarazione come una leggerezza, come un modo retorico di sdrammatizzare. Ma non è così. È la prova provata che, se la crisi dovesse allargarsi, non potremo contare ciecamente sugli Stati Uniti. Non oggi, non domani, non con Trump né con qualsiasi altro presidente. Perché il meccanismo non dipende dalla persona, ma dal sistema. Washington decide se e come intervenire. L’Europa, nel frattempo, resta in attesa.
Eppure il pericolo è già qui. La Russia colpisce, l’Iran minaccia, la Turchia gioca la sua partita, il Mediterraneo è attraversato da flotte e basi militari russe. E l’Europa che fa? Discute, temporeggia, si divide. Si rifugia nella NATO come un bambino che cerca protezione nel genitore, senza accorgersi che quel genitore ormai guarda altrove.
Senza difesa non c’è libertà
La verità è semplice: senza una difesa comune europea, l’Europa non è libera. È una colonia, legata alla potenza militare americana e incapace di agire da sola. Può scrivere trattati, organizzare vertici, parlare di pace e diplomazia, ma se non ha armi, eserciti e comando unificato resta un gigante economico con i piedi d’argilla. E ogni crisi internazionale lo dimostra.
Trump, con il suo “potrebbe essere stato un errore”, ha messo a nudo l’illusione. Ha ricordato agli europei che la protezione americana non è automatica, non è incondizionata, non è neppure sicura. È un calcolo, sempre e solo un calcolo di interesse nazionale.
E allora, la domanda non è cosa farà l’America. La domanda è cosa farà l’Europa. Continuare a sperare che qualcuno intervenga, o costruire finalmente una forza autonoma, capace di difendere i propri confini, i propri cieli, i propri mari?
Se non lo farà, ogni “errore” rischia di trasformarsi in catastrofe.