
La polvere si alza in colonne bianche lungo la strada che porta a sud. Non c’è silenzio, ma un brusio incessante di passi, pianti e urla che si mescolano ai boati lontani. Le famiglie avanzano trascinando sacchi, taniche e bambini stanchi. Qualcuno spinge un carretto, altri portano materassi piegati sulle spalle, come se fossero ancora legati a un letto che non esiste più. La marcia non ha inizio né fine, solo corpi che si muovono in una direzione obbligata.
A Nuseirat, nel cuore della Striscia, il Capital Shelter Camp diventa un imbuto che raccoglie la disperazione. Ogni giorno tende nuove si affollano, improvvisate con teli e corde. Non c’è spazio, non c’è aria, eppure continua ad arrivare gente. Hanno percorso chilometri a piedi, lasciandosi dietro le esplosioni e i palazzi crollati. Qui si ritrovano insieme, testimoni che raccontano una tragedia che non ha bisogno di essere cercata: si legge nei loro occhi.
I testimoni di Nuseirat
Tra loro c’è Mervat Abdullah al-Jarjawi, 57 anni, del quartiere Sabra. È arrivata con la nuora, rimasta vedova dopo che un bombardamento a luglio ha ucciso suo marito, l’unico figlio di Mervat. Non ha più una casa a cui tornare, solo ricordi che pesano come macerie. “In passato ci aggrappavamo alla speranza di ritornare, un giorno. Questa volta invece mio figlio non c’è più, la nostra casa non c’è più. Non è rimasto niente. Soltanto macerie”, racconta con la voce spezzata.
Accanto a lei il nipotino, Abdelrahman, interrompe la nonna con un ricordo che non appartiene a un bambino. Dice di aver visto “una bambina senza testa” stesa sull’asfalto durante la fuga. La madre spiega che hanno attraversato strade cosparse di cadaveri e feriti, e che il piccolo non potrà dimenticare quello sguardo perso tra i corpi mutilati.
La marcia verso sud
Sono circa 300 mila i gazawi in cammino. Arrivano da Shujaiya, al-Tuffah, Sabra, al-Saftawi, al-Zeitoun, quartieri cancellati dal fuoco dei raid. C’è chi ha lasciato indietro genitori troppo anziani per muoversi, chi ha visto i vicini scomparire sotto i crolli. Ogni racconto porta con sé lo stesso dolore.
Nel campo incontriamo Samiya Hassan, 34 anni, madre di tre figli, che ha camminato due giorni da al-Tuffah: “Abbiamo visto la notte illuminata dalle esplosioni, i muri crollavano mentre correvamo”. Poco distante, Ahmed al-Masri, 42 anni, scappato da Shujaiya, aggiunge: “Non sono più quartieri, sono crateri. E i corpi restano sotto le macerie perché non c’è nessuno che possa tirarli fuori”.
L’infanzia cancellata
Le voci dei bambini sono quelle che colpiscono di più. Parlano di corpi dilaniati come se fosse normale, come se la guerra avesse sostituito i giochi. Una madre, appena arrivata da al-Saftawi, racconta che il figlio più piccolo non dorme: continua a gridare di notte perché dice di sentire ancora le urla sotto le macerie.
La bambina senza testa diventa così il simbolo collettivo di un’infanzia spezzata, il punto in cui la tragedia si fa immagine indelebile. Non è solo il ricordo di Abdelrahman, ma l’eco di centinaia di piccoli che stanno crescendo tra le tende, segnati da visioni che non si cancellano.
L’orrore che non finisce
Nuseirat non è un rifugio sicuro, ma un passaggio obbligato. Gli sfollati continuano a radunarsi, senza sapere se domani ci sarà ancora acqua o cibo. Le loro parole sono frammenti che compongono un’unica narrazione: la fuga non è più temporanea, ma definitiva. Nessuno parla di ritorno, perché dietro non resta più nulla.
Tra le macerie di Gaza, la guerra non distrugge soltanto case e vite, ma cancella il futuro. La marcia verso sud è il cammino di una popolazione che sopravvive senza illusioni, accompagnata dal fantasma di una bambina senza testa che nessuno potrà dimenticare.