
L’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano non è soltanto l’ennesimo capitolo della lunga e drammatica contesa tra israeliani e palestinesi. Per milioni di americani che si riconoscono nella fede evangelica, quello che accade oggi nella Striscia e intorno a Gerusalemme non è un conflitto come gli altri: è un tassello del grande mosaico che porta al compimento delle profezie bibliche.
In questa visione, Israele non è uno Stato come gli altri e gli ebrei non sono soltanto un popolo tra i popoli. Sono il cuore stesso della storia sacra, l’anello che collega l’Antico e il Nuovo Testamento, il segno vivente che Dio non ha abbandonato le sue promesse. Per questo, quando i carri armati entrano a Gaza o quando un razzo cade su Tel Aviv, in certe chiese americane non si parla di geopolitica, ma di escatologia: la fine dei tempi che si avvicina.
Il ritorno a Sion come profezia compiuta
Le radici di questo pensiero affondano in secoli di predicazione. Già nell’Ottocento, tra i protestanti anglosassoni, si diffondeva l’idea che gli ebrei dovessero tornare nella loro terra come premessa al ritorno di Cristo. La fondazione dello Stato di Israele nel 1948, seguita dalle guerre arabo-israeliane, è stata letta come una conferma straordinaria di quella speranza: la Bibbia si compiva davanti agli occhi del mondo.
Ogni volta che Israele resiste a un assalto, i predicatori evangelici citano i versetti di Ezechiele: “Io vi radunerò da tutte le nazioni e vi ricondurrò nella vostra terra”. E ogni volta che un conflitto esplode, la memoria corre a Zaccaria: “Gerusalemme sarà una coppa di vertigine per tutti i popoli all’intorno”. È questa la grammatica nascosta che spiega perché, negli Stati Uniti, l’appoggio a Israele sia così profondo e viscerale.
Trump, il leader che parla al cuore evangelico
Donald Trump ha saputo leggere questa sensibilità come pochi altri presidenti prima di lui. Nel 2018, quando decise di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, compì un gesto che non era solo politico: fu percepito come un atto sacro. In quella scelta, l’America evangelica vide la mano di Dio all’opera, un presidente finalmente disposto a riconoscere la centralità eterna della città santa.
Da allora, il legame tra Trump e la sua base evangelica si è trasformato in un patto che va oltre la politica: un’alleanza spirituale. Netanyahu, per molti trumpiani, non è soltanto un premier assediato dalle inchieste e dalle bombe di Hamas, ma l’uomo chiamato a difendere Gerusalemme nell’ora più buia.
Una fede che plasma la politica
La conseguenza è che, mentre l’Europa discute di diritti umani e proporzionalità della risposta militare, una parte dell’America vede in Israele un avamposto del cielo sulla terra. Sostenere Israele significa proteggere non solo un alleato, ma la chiave stessa del destino universale. Non è più solo una scelta strategica: è un dovere spirituale.
Questa prospettiva ha effetti concreti. Quando i trumpiani chiedono a gran voce un sostegno incondizionato a Israele, non lo fanno soltanto in nome della sicurezza, ma perché convinti che il futuro del mondo dipenda da quella terra. È una mobilitazione totale: politica, religiosa, culturale.
La contraddizione finale
Eppure, in questa visione si nasconde una contraddizione. Molti evangelici non sostengono Israele per amore degli ebrei, ma perché li vedono come protagonisti di un destino già scritto: alla fine dei tempi, secondo la loro lettura, il popolo ebraico riconoscerà Cristo come Messia. In questa prospettiva, l’appoggio totale a Israele non esclude una forma di attesa, quasi di sospensione, che trasforma gli ebrei in pedine di un piano superiore.
È un paradosso potente: Israele viene difeso con passione assoluta, ma non per ciò che è, bensì per ciò che, un giorno, dovrebbe diventare. Il sostegno trumpiano a Netanyahu si fonda così su una miscela di fede e politica, di calcolo elettorale e profezia apocalittica, di amicizia e di attesa di conversione.
Ed è questa miscela che spiega perché, mentre Gaza brucia e il mondo cerca compromessi, una parte dell’America continua a guardare a Israele come al fulcro della storia universale. Non solo un conflitto, non solo un alleato: ma il luogo in cui la Bibbia e la politica si incontrano, e dove l’ombra del futuro sembra già farsi presente.