
La morte di Alexei Navalny, principale oppositore del governo russo, avvenuta nel 2024 in una colonia penale siberiana, continua a scuotere l’opinione pubblica internazionale. La vedova, Yulia Navalnaya, ha rilanciato pesanti accuse contro il Cremlino, sostenendo che il marito sarebbe stato avvelenato. In un post sui social ha rivelato che, nel febbraio 2024, erano stati raccolti campioni biologici del dissidente, poi trasferiti all’estero e analizzati da laboratori occidentali. “Due laboratori in due Paesi diversi hanno concluso che Alexei è stato avvelenato”, ha dichiarato, alimentando i sospetti che la sua morte non sia stata naturale.
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Alle sue parole ha replicato con distacco Dmitri Peskov, portavoce di Vladimir Putin, affermando: “Non so nulla di queste sue dichiarazioni. Non posso dire nulla al riguardo”. È solo l’ennesimo capitolo di un confronto a distanza che dura da anni, fatto di accuse, smentite e sospetti mai del tutto fugati. Navalnaya, già il giorno della morte del marito, aveva parlato pubblicamente di un possibile uso del Novichok, lo stesso agente nervino che fu al centro del tentato avvelenamento di Navalny nell’agosto 2020.

Dalla condanna alla detenzione estrema
Alexei Navalny, 47 anni, era considerato il nemico pubblico numero uno del Cremlino. Avvocato di formazione, aveva costruito la sua notorietà con dure inchieste sulla corruzione della classe politica russa e con una critica frontale all’autoritarismo di Putin. Dopo l’avvelenamento del 2020, nel marzo 2022 fu condannato a nove anni di reclusione, pena che nell’agosto 2023 venne aumentata a 19 anni. Nel dicembre 2023 fu trasferito nella colonia penale IK-3 “Lupo Polare”, a Charp, oltre il Circolo Polare Artico, dove le comunicazioni con l’esterno erano ridotte al minimo.
Secondo il gruppo per i diritti umani Gulagu.net, guidato da Vladimir Osechkin, l’oppositore sarebbe stato ucciso con un “pugno al cuore”, una tecnica riconducibile alle forze speciali dell’ex KGB. Prima della morte, avrebbe subito esposizioni prolungate a temperature di -27 gradi, condizioni estreme che avrebbero contribuito al deterioramento delle sue condizioni fisiche. Alcuni lividi riscontrati sul corpo sarebbero compatibili con questa ipotesi.

Un contesto politico e militare teso
La morte di Navalny è avvenuta mentre la Russia era impegnata nelle esercitazioni Zapad-2025, con circa 100.000 soldati dislocati in 41 campi di addestramento, come riportato dall’agenzia statale Tass. Un contesto che testimonia la crescente militarizzazione della strategia russa e il rafforzamento del potere personale di Putin, mentre le tensioni internazionali continuano a crescere. La scomparsa del dissidente si inserisce così in un quadro in cui ogni voce contraria viene isolata, repressa e, talvolta, eliminata.
Navalny aveva sempre sostenuto un avvicinamento all’Occidente e la legalizzazione dei matrimoni omosessuali in Russia, battaglie che lo avevano reso un simbolo della resistenza interna ma anche un bersaglio di repressione sistematica. Il suo trasferimento nel territorio artico e le condizioni estreme della detenzione restano una testimonianza del trattamento durissimo riservato agli oppositori politici.
Un’eredità che continua
Le accuse di Yulia Navalnaya, supportate dai risultati dei laboratori esteri, riaccendono i riflettori sulla pratica degli avvelenamenti di Stato e sulle presunte responsabilità del Cremlino. La vedova ha promesso di portare avanti l’opera del marito, invitando i sostenitori a unirsi a lei nella battaglia per un futuro diverso per la Russia. Intanto, la comunità internazionale osserva con attenzione, mentre la figura di Navalny resta simbolo della lotta per la democrazia e per i diritti umani in un Paese dove il dissenso continua a essere duramente represso.