
Il Sinai torna a essere terreno di frizioni tra Israele ed Egitto, a quasi mezzo secolo da quell’accordo di pace che avrebbe dovuto congelare per sempre le ostilità. Secondo quanto riportato dal sito Axios, Benjamin Netanyahu ha chiesto all’Amministrazione Trump di esercitare pressioni sul Cairo affinché ridimensioni il rafforzamento militare nella penisola. Per gli israeliani, le ultime mosse egiziane non sono un dettaglio tecnico, ma un rischio concreto per l’equilibrio regionale, tanto più in un momento in cui l’esercito israeliano è già impegnato nelle operazioni su larga scala nella Striscia di Gaza.
La questione è stata sollevata lunedì a Gerusalemme, durante l’incontro tra il premier israeliano e il segretario di Stato americano Marco Rubio. Netanyahu avrebbe presentato un dossier con una serie di attività nel Sinai, descritte come violazioni dirette del trattato di pace del 1979, che limita severamente la presenza e la tipologia di armamenti che l’Egitto può schierare in quell’area.
Il precedente

Per capire la portata delle accuse israeliane, occorre tornare a quel marzo del 1979, quando il presidente egiziano Anwar Sadat e il premier israeliano Menachem Begin, sotto la mediazione di Jimmy Carter, firmarono a Washington un’intesa storica. Era il frutto degli accordi di Camp David del settembre precedente, siglati dopo settimane di negoziati serrati. L’intesa pose fine a tre decenni di conflitti tra i due Paesi e riconsegnò all’Egitto il controllo del Sinai, occupato da Israele dal 1967, dopo la guerra dei Sei giorni.
Uno degli elementi più delicati dell’accordo era proprio la smilitarizzazione della penisola. L’Egitto poteva mantenere solo una limitata presenza militare con armamenti leggeri, mentre la sicurezza lungo i confini veniva garantita da osservatori internazionali. In cambio, Israele ottenne garanzie di sicurezza e l’avvio di rapporti diplomatici ufficiali, mentre l’Egitto divenne il primo Paese arabo a riconoscere lo Stato ebraico.
Le guerre che hanno incendiato il Sinai
Quel trattato metteva la parola fine a una stagione di guerre. Il Sinai era stato teatro delle più aspre battaglie arabo-israeliane: nel 1956 con la crisi di Suez, quando Israele invase la penisola insieme a Francia e Regno Unito per rispondere alla nazionalizzazione del canale; nel 1967, con la guerra dei Sei giorni, che si concluse con la travolgente vittoria israeliana e l’occupazione del Sinai; e nel 1973, con la guerra del Kippur, quando le forze egiziane attraversarono il Canale di Suez colpendo di sorpresa Israele.
Ogni volta, il Sinai era stato campo di battaglia decisivo, simbolo della fragilità dei rapporti e al tempo stesso terreno conteso tra sicurezza e sovranità. Proprio per questo il trattato del 1979 fissava confini precisi e controlli severi, convinto che solo la smilitarizzazione potesse evitare nuove escalation.
L’allarme israeliano oggi
Secondo fonti israeliane citate da Axios, nelle ultime settimane l’Egitto avrebbe innalzato infrastrutture militari in aree dove il trattato consente solo forze leggere. Per Tel Aviv, quelle installazioni non sono difensive, ma potenzialmente offensive. “Quello che gli egiziani stanno facendo nel Sinai è molto grave e siamo molto preoccupati”, avrebbe confidato un alto funzionario israeliano.
Le lamentele dirette a Il Cairo non hanno sortito effetti. Da qui la decisione di Netanyahu di rivolgersi agli Stati Uniti, chiedendo che sia Washington a premere sull’Egitto, tradizionale alleato nella stabilità del Medio Oriente ma oggi visto da Israele con crescente diffidenza.
Un equilibrio sempre fragile
Il Sinai rimane dunque il punto debole di un’intesa storica che, pur avendo retto per decenni, non ha mai cancellato del tutto i sospetti reciproci. In questi mesi, con il conflitto a Gaza che ha esasperato l’intero quadro regionale, la penisola torna a essere un simbolo della precarietà mediorientale: una terra arida, attraversata da confini artificiali, che da sempre racconta la storia di guerre, trattati e fragili paci.