
Si è da poco conclusa la kermesse di Pontida, ritrovo annuale dei sostenitori della Lega. Oltre al solito folklore, quest’anno davvero limitato e al discorso del segretario federale Matteo Salvini, su cui torneremo, un’immagine resterà scolpita nella mente degli osservatori più attenti: quel modellino del costruendo ponte sullo stretto di Messina, un successo che Salvini avoca a sé ed alla Lega. Ecco, nelle Pontida storiche della Lega non avrebbe mai trovato posto un simbolo del sud, quello dei “terùn” che Bossi indicava come responsabili del debito italiano, parassiti ed assistenzialisti. Nemmeno se si tratta di un’opera fondamentale per far crescere tutto il Paese, non certo solo il mezzogiorno. Ecco, in questa immagina, quella del modellino del ponte, sta tutta la metamorfosi incompiuta della Lega di Salvini, che dalle radici regionaliste (prima secessioniste, poi federaliste) è approdata al nazionalismo senza compiere quel salto di qualità, nei contenuti e nei consensi, da trasformarla in un partito conservatore vincente. E’ solo colpa del segretario?

Da Bossi ai “terùn” e a “Roma ladrona”: le radici nordiste della Lega
La Lega nasce a fine anni ’80 come Lega Nord, partito regionalista e protestatario guidato da Umberto Bossi. Le sue parole d’ordine erano durissime verso Roma e il Sud Italia: celebre lo slogan “Roma ladrona”, con cui si accusava lo Stato centrale di sperperare i soldi del Nord a favore della politica romana e delle regioni meridionalien.wikipedia.org. Nel folklore leghista degli anni ’90 non mancavano neppure gli insulti etnici: i meridionali venivano sprezzantemente chiamati “terùn”, considerati fannulloni, ladri e protetti dallo Stato (percepito come ostaggio del Sud). La Lega di Bossi era insomma un partito secessionista e fieramente anti-meridionale, che affondava le sue radici nel sentimento di rivalsa del Nord produttivo contro il resto del Paese. Il motto “Padroni a casa nostra” riassumeva quell’aspirazione autonomista e perfino indipendentista (la fantomatica “Padania”) che per anni guidò l’azione politica del Carroccio.
In quella fase la Lega rimase confinata prevalentemente al settentrione, pur ottenendo successi significativi nelle “sue” regioni (Lombardia, Veneto in primis). Bossi non aveva interesse a espandersi al Sud – anzi, arringava le folle con cori anti-meridionali – e stringeva alleanze elettorali solo funzionali (come con Berlusconi nel 1994) senza mai rinunciare alla retorica “Nord vs Sud”. Per rendere l’idea del clima: in un comizio del 2011 Bossi arrivò a insultare l’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano chiamandolo “terùn”, fra le risate e i cori dei militanti (“Roma ladrona, la Lega non perdona!”). In sintesi, la vecchia Lega Nord era un partito identitario nordista, federalista e spesso sopra le righe, che cavalcava il malcontento anti-statale (specie dopo Tangentopoli) e mal sopportava sia Roma che il Mezzogiorno.

La svolta nazional-populista di Salvini e l’ascesa (seguita dal declino)
Nel 2013, dopo i guai giudiziari di Bossi, la leadership passò al giovane Matteo Salvini. Da subito Salvini impostò una rivoluzione interna: allargare la Lega al resto d’Italia, trasformandola da movimento nordista a partito nazional-populista sull’onda di euroscetticismo, sovranismo e retorica anti-immigrati. Nel 2014 nacque il contenitore “Noi con Salvini” per il Centro-Sud, e nel 2018 il partito fu ufficialmente ribattezzato semplicemente Lega (o Lega per Salvini Premier), abbandonando la dicitura “Nord” e indebolendo così la sua connotazione regionalista, tra i malumori delle regioni leghiste per eccellenza come il Veneto. L’obiettivo dichiarato era ambizioso: fare della nuova Lega un partito nazionale, competitivo dal Piemonte alla Sicilia, superando le vecchie battaglie localistiche.
In pochi anni Salvini riuscì nel suo intento dal punto di vista elettorale. Alle elezioni politiche del 2018 la Lega balzò al 17%, raddoppiando i voti rispetto al passato e diventando il primo partito del centrodestra. Ma il vero exploit fu alle Europee del 2019, dove la Lega salviniana fu primo partito a livello nazionale con il 34,3% dei consensiansa.it. Per la prima volta un partito originariamente nordista sfondava ovunque: la Lega cresceva non solo al Nord ma anche nelle ex regioni “rosse” del Centro e persino nel Mezzogiorno (raggiunse in media il 20% al Sud)ansa.itansa.it. Come evidenziò la stampa, “la nuova Lega di Matteo Salvini diventa sempre più un partito nazionale”, primo in Italia e in grande aumento anche al Centro-Sudansa.it. In quegli anni Salvini calcò molto la mano sui temi identitari nazionali: stop immigrazione, sicurezza, flat tax, critica all’UE e difesa della “sovranità italiana”. I toni anti-meridionali, un tempo marchio di fabbrica, furono smorzati: al Sud Salvini faceva campagna promettendo lavoro e persino investimenti (celebre il cambiamento di slogan da “Prima il Nord” a “Prima gli italiani”, inclusivi di tutto il Paese). I risultati parvero dargli ragione, con la Lega al governo (prima con M5S, poi con Draghi e ora con Meloni) e picchi di consenso mai raggiunti prima.
Tuttavia, quella di Salvini si è rivelata una rivoluzione incompiuta. Dopo i fasti del 2019 il ciclo si è invertito: la Lega “nazionale” ha iniziato a perdere terreno, soprattutto nelle sue roccaforti settentrionali, a vantaggio di altre forze di destra come Fratelli d’Italia. Già nelle elezioni politiche del 2022 il partito è crollato sotto il 9% dei voti, tornando sui livelli di trent’anni fa. In Veneto, per esempio – da sempre serbatoio leghista – la Lega è passata dal 31% del 2018 a solo il 14% nel 2022, venendo doppiata da FdI. Alle Europee del 2024 la disfatta si è ripetuta: appena 9% su base nazionale, sorpassata perfino dall’alleata Forza Italia. Nella sua “madre patria” veneta, la Lega ha perso circa un milione di voti rispetto alle europee precedenti (2019), precipitando da quasi il 50% a un magro 14%. Un crollo verticale.
I sondaggi recenti confermano il trend: la Lega oggi oscilla attorno a 8-9% delle intenzioni di voto, contendendosi con FI il ruolo di terzo partito del centrodestra. In pratica è tornata ai consensi dell’era Bossi “ma senza l’ideale che ci guidava all’epoca e senza il nostro popolo”, come amaramente ha commentato un veterano leghista veneto appena uscito dal partito. Questa frase – “siamo tornati alle percentuali di Bossi, ma senza quell’anima” – riassume bene la crisi identitaria in atto. Salvini ha trasformato la Lega in un partito nazionale, ma nel farlo ha snaturato alcuni valori originari e ora paga pegno in termini di consenso, scontentando tanto i puristi nordisti quanto parte degli elettori attratti in passato dalla sua spinta propulsiva (ora assorbita da Giorgia Meloni).

Pontida 2025: ritorno (parziale) alle origini nordiste e il ponte verso Sud
In questo scenario di consensi risicati, Matteo Salvini ha cercato di riscoprire il DNA originario della Lega per frenare l’emorragia di voti al Nord. Il tema dell’autonomia regionale differenziata è tornato centrale nei discorsi ufficiali, così come i riferimenti affettuosi al “Senatùr” Bossi e alle tradizioni del movimento. Emblematico è quanto accaduto al raduno di Pontida 2025 (la storica kermesse leghista sul “sacro prato” bergamasco): Salvini, consapevole delle prossime sfide elettorali nelle regioni settentrionali (come il Veneto, dove nel 2025 si voterà per il dopo-Zaia), ha cercato di riascoltare la pancia del Nord. Sul palco ha promesso di accelerare sulla devoluzione di poteri alle regioni (“cari amici al governo, diamo l’autonomia a chi la chiede” ha invocato il governatore Luca Zaia) e ha reso omaggio ai padri nobili leghisti. “Facciamo arrivare a casa di Bossi l’abbraccio di Pontida… gratitudine e riconoscenza: siamo un popolo in cammino che lui ha risvegliato”, ha dichiarato Salvini, tributando il fondatore. Il motto dell’evento era significativamente “Liberi e forti, senza paura”, quasi a rievocare lo spirito originario di autonomia e fierezza del movimento.
Tuttavia, accanto a questo ritorno di fiamma nordista, Salvini non ha rinunciato al suo progetto nazionale – anzi, ha dato luogo a una scena impensabile ai tempi di Bossi. A Pontida 2025, tra le bancarelle con gli storici simboli padani, campeggiavano bandiere della Sicilia e addirittura uno stand della Lega Sicilia con esposto un modellino del Ponte sullo Stretto di Messina. Proprio così: nel cuore del raduno nato per rivendicare “Padania libera”, è comparso in bella vista il plastico del mega-ponte autostradale e ferroviario che dovrebbe unire la Calabria alla Sicilia. Salvini dal palco ne ha fatto un vanto nazionale, annunciando: “Noi il Ponte lo rea-liz-ze-re-mo, facendo lavorare imprese di tutta Italia, giovani e architetti di tutta Italia”. Ha perfino scandito le sillabe per enfatizzare l’impegno, aggiungendo “smettetela di dire che è inutile”.
Questa scena – il leader leghista esibire con orgoglio il progetto di un’infrastruttura nel profondo Sud davanti alla platea bergamasca – segna simbolicamente la mutazione della Lega. Come è stato notato, “il prato di Pontida… ospita il Ponte sullo Stretto… e bandiere siciliane che fino a qualche anno fa sarebbe stato anacronistico immaginare su quel prato”. In altre parole, una cosa che ai tempi di Bossi, dei cori contro i “terùn” e di “Roma ladrona” non sarebbe mai accaduta. L’ossimoro è evidente: la Lega rispolvera la vocazione nordista per le elezioni in Veneto, ma intanto celebra un’opera pensata per collegare la “Padania” al Sud Italia, per giunta promossa insieme agli alleati di centrodestra romani.
Dal raduno di Pontida 2025 sono emerse dunque due Leghe sovrapposte: una che prova a riabbracciare le proprie radici autonomiste (per rassicurare i militanti del Nord in fuga verso altri partiti, o nell’astensionismo), e un’altra che insiste sulla linea nazionale sovranista, attenta anche alle istanze del Sud e agli equilibri di governo. Salvini ha provato a unire i due messaggi, ma non tutti nel partito sono convinti. “Non abbastanza” – ha chiosato Zaia, riferendosi allo spazio dato all’autonomia nel discorso ufficiale, giudicato ancora timido. Del resto lo stesso Salvini, dopo aver centralizzato così tanto la Lega negli ultimi anni, fatica a ritrovare credibilità come paladino delle istanze locali: molti governatori e amministratori settentrionali lamentano che ormai “le decisioni nella Lega arrivano dall’alto e non c’è quasi mai possibilità di discuterle. Altrimenti sei fuori”, segno di un verticalismo accentuato che ha spento la partecipazione della base.

Salvini “leader accentratore” e la minaccia dei nuovi delfini: il caso Vannacci
Un’ulteriore contraddizione di Salvini sta proprio nella sua leadership personalistica. Per consolidare la “Lega 2.0”, Salvini ha accentrato su di sé ogni decisione: ha commissariato la vecchia Lega Nord, inserito il suo nome nel simbolo del partito e spesso imposto candidati e linee politiche senza consultazioni allargate. Questo modello monocratico ha funzionato finché il consenso era alto; ora che la Lega arranca, iniziano a moltiplicarsi i malumori interni e i potenziali sfidanti. Lo stesso Bossi, padre fondatore oggi fuori dal Parlamento, non ha esitato a criticare Salvini negli ultimi mesi: “Ha trasformato la Lega in un partito di estrema destra”, arrivando a definirla “una copia sbiadita di Fratelli d’Italia” e invocando di fatto un cambio di leadership. Anche alcuni governatori leghisti di peso, pur senza strappi pubblici, si preparano al “dopo Salvini”: il nome di Luca Zaia (governatore del Veneto al suo ultimo mandato) ricorre spesso come possibile successore se il trend negativo non si invertisse.
Ma la novità più clamorosa è l’ascesa di Roberto Vannacci, un generale paracadutista salito alla ribalta mediatica nell’estate 2023 per un libro autoprodotto dai contenuti fortemente tradizionalisti e controversi (Il mondo al contrario). Vannacci, con il suo linguaggio anti-politically correct e le posizioni di estrema destra, ha rapidamente catalizzato le simpatie di una fetta di elettorato sovranista “duro e puro” – in parte coincidente con la base leghista delusa. Salvini inizialmente lo ha difeso dalle polemiche e cooptato nella Lega, nominandolo addirittura vice-segretario federale e candidandolo come indipendente di punta alle elezioni europee del 2024. La mossa era chiara: assorbire il fenomeno Vannacci dentro il Carroccio per evitare che nascesse una pericolosa concorrenza esterna. In effetti il generale, presentato come capolista in tutte le circoscrizioni, ha portato un contributo personale notevole: oltre 500 mila preferenze raccolte, risultando di gran lunga il candidato leghista più votato in Italia. Eppure, nonostante ciò, la Lega alle europee è andata malissimo (come visto, sotto il 10%, superata perfino da Forza Italia). Segno che l’“effetto Vannacci” da solo non basta a risollevare un partito in crisi d’identità.
Anzi, l’operazione potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Vannacci – oggi accolto sul palco di Pontida come un eroe, con magliette celebrative vendute allo stand più di quelle della Lega stessa – sta acquisendo visibilità e peso politico. Le sue dichiarazioni spesso estreme (a Pontida ha proposto di insegnare il giuramento di fedeltà medievale di Pontida e gli “eroi” della Xª MAS ai ragazzi nelle scuole inquietano l’ala più moderata del partito e rischiano di polarizzare ulteriormente il messaggio leghista. Salvini pubblicamente minimizza, definendo Vannacci “un valore aggiunto” e uno dei tanti che si avvicinano alla Lega portando “contributo umano e valoriale”. Ma tra i fedelissimi e i parlamentari serpeggia il timore che il generale coltivi ambizioni proprie. Del resto, alcuni indizi già ci sono: Vannacci ha costituito un suo Comitato Il Mondo al Contrario e frequentato ambienti della destra più radicale fuori dal partito.
L’ipotesi di una scissione o di una lista autonoma capeggiata da Vannacci aleggia nello scenario politico, tanto che sono circolati sondaggi shock: secondo una rilevazione Termometro Politico, ben il 9% degli italiani sarebbe disposto a votare un eventuale partito di Roberto Vannacci, un bacino che andrebbe a svuotare la Lega decretando il declino definitivo di Salvini. Un dato impressionante (9% potenziale) che rappresenta una chiara spada di Damocle sulla leadership di Salvini. Se Vannacci dovesse fare il “grande salto” da solo, la Lega rischierebbe di perdere gran parte dei suoi consensi residui in favore del generale. Non a caso, dopo le Europee Salvini ha convocato d’urgenza un consiglio federale della Lega per l’autunno 2024, in quello che molti indicano come un redde rationem interno: lì si capirà se la convivenza forzata tra il Capitano e il Generale potrà continuare o se si arriverà alla rottura.
In conclusione, la metamorfosi della Lega da partito regionalista a partito nazionale, voluta da Salvini, ha ottenuto risultati storici ma ha anche lasciato il movimento in un limbo irrisolto. La rivoluzione salviniana è rimasta a metà: la Lega non è più (solo) quella dei “terùn” e di “Roma ladrona”, ma nemmeno è riuscita a diventare stabilmente il grande partito nazionale sovranista che ambiva a essere – ruolo oggi occupato da Fratelli d’Italia. Salvini, leader accentratore per eccellenza, si trova paradossalmente accerchiato da problemi in ogni direzione: al Nord deve riconquistare la base storica, riallacciando i fili con l’identità originaria (autonomia, territorio, pragmatismo di governo locale) che lui stesso ha sacrificato; a livello nazionale deve arginare l’erosione di consensi verso Meloni e ri-definire una linea politica convincente; dentro il partito deve gestire o neutralizzare i nuovi leader in pectore che bussano alla porta, su tutti Vannacci, prima che la sua stessa creatura politica gli esploda fra le mani. La Lega di Salvini è dunque a un bivio: ritrovare una sintesi credibile tra passato e futuro oppure rassegnarsi a un ruolo di comprimaria, frammentata tra nostalgie nordiste e tentazioni nazional-populiste concorrenti. Come recitava uno striscione a Pontida, “Nulla sarà più come prima”: nel bene e nel male, per la Lega nulla è più come prima davvero. Le prossime sfide elettorali e scelte strategiche diranno se ci sarà spazio per un nuovo capitolo nella sua travagliata metamorfosi, o se la “rivoluzione incompiuta” di Salvini segnerà l’inizio del tramonto per il Carroccio sul panorama politico italiano.