
Le dichiarazioni di Donald Trump sul paracetamolo in gravidanza hanno aperto un fronte polemico che rischia di avere ricadute concrete sulla salute di milioni di donne. Il presidente ha infatti sconsigliato l’uso del farmaco, collegandolo a un presunto aumento del rischio di autismo. Le sue parole, pronunciate senza il supporto di dati scientifici, hanno creato preoccupazione tra le gestanti, alimentando l’idea che l’assunzione di Tylenol possa essere pericolosa. La reazione della comunità medica internazionale è stata immediata e compatta: le società scientifiche e gli esperti di ginecologia hanno ribadito che, ad oggi, non esistono prove di causalità tra l’assunzione in gravidanza e disturbi del neurosviluppo.
Secondo l’American College of Obstetricians and Gynecologists, l’acetaminofene resta il farmaco analgesico e antipiretico di prima scelta durante la gravidanza, se usato seguendo alcune regole chiare: il dosaggio deve essere il minimo efficace, la durata del trattamento la più breve possibile e l’assunzione va sempre concordata con un medico. Trascurare febbre alta o dolore intenso, infatti, può comportare rischi ben documentati per madre e feto. In questo contesto, l’uso responsabile del paracetamolo è considerato un’opzione sicura.

Cosa dicono gli studi più recenti
La letteratura scientifica ha spesso sollevato il dubbio di un legame tra paracetamolo e disturbi come ASD o ADHD. Tuttavia, molti studi osservazionali non hanno potuto escludere fattori confondenti, come le condizioni che hanno portato la donna a prendere il farmaco: infezioni, infiammazione, stress o dolore cronico. Proprio per questo, i lavori più recenti hanno utilizzato metodologie più raffinate, come i confronti tra fratelli, che permettono di controllare meglio le variabili genetiche e ambientali condivise.
Un’ampia ricerca condotta in Svezia su oltre due milioni di bambini e pubblicata su JAMA ha chiarito il punto: nei confronti tra fratelli non si osserva alcun aumento del rischio di autismo, ADHD o disabilità intellettiva legato all’uso di acetaminofene durante la gravidanza. Questo significa che le differenze osservate in studi meno accurati sono attribuibili a fattori familiari comuni, non al farmaco. Anche le analisi di sintesi più autorevoli arrivano alla stessa conclusione: eventuali associazioni non dimostrano una relazione di causa-effetto. Il principio di prudenza resta valido, ma non ci sono motivi per sconsigliare in modo generalizzato l’assunzione del farmaco.
Tra rischi presunti e pratica clinica
Il nodo centrale non è negare i dubbi, ma capire il peso delle evidenze. Alcune ricerche hanno segnalato correlazioni statistiche, ma non hanno potuto escludere che fosse la condizione stessa a rappresentare il fattore di rischio, e non il farmaco. Febbre alta in gravidanza, ad esempio, è associata a complicanze nello sviluppo fetale. In questo senso, il trattamento dei sintomi è fondamentale per proteggere la salute materna e neonatale.
Le parole di Trump hanno creato confusione, perché hanno presentato come certe informazioni che la scienza considera tutt’altro che definitive. Per gli esperti, il pericolo è duplice: da un lato spaventare le gestanti, spingendole a non curarsi; dall’altro generare un senso di colpa ingiustificato in chi ha già assunto paracetamolo in gravidanza. La realtà clinica è diversa: mentre gli FANS come l’ibuprofene sono sconsigliati in specifiche fasi della gestazione per i rischi sul feto, l’acetaminofene rimane il farmaco di riferimento.
La raccomandazione resta invariata: impiegare il paracetamolo solo quando serve, alla dose più bassa ed evitando trattamenti prolungati, sempre sotto consiglio medico. Evitare il farmaco sulla base di dichiarazioni allarmistiche significa esporsi a rischi certi e documentati. La conclusione della comunità scientifica è chiara: non ci sono prove che l’uso corretto di paracetamolo in gravidanza causi disturbi del neurosviluppo, mentre ci sono solide ragioni per continuare a considerarlo la prima scelta quando è necessario trattare febbre e dolore.