
Il Partito Democratico (PD) si trova, all’indomani della leadership di Elly Schlein, di fronte a dilemmi profondi. Storicamente lacerato da correnti interne e potentati locali, il PD fatica a trovare un’identità unitaria. Anche sotto Schlein le tensioni non sono mancate: l’ala moderata (i cosiddetti “riformisti” o destra dem) ha contestato più volte la linea della segretaria su temi chiave. Dalle divergenze sul rifinanziamento della difesa europea alle posizioni sul conflitto in Medio Oriente (giudicate troppo squilibrate a sinistra), fino al sì di Schlein ai referendum della CGIL contro il Jobs Act, i dirigenti più centristi hanno marcato il dissenso. Un “coro di critiche” – come riportato dal Manifesto – alimentato anche da alcuni padri nobili del PD che giudicano Schlein “unfit” (non idonea) a guidare un governo. In questo clima, le varie anime (ex DS, ex Margherita, cattolici democratici, sinistra interna, giovani riformisti, etc.) faticano a convivere, riproponendo quella perenne “guerra tra correnti” che spesso paralizza il partito.
Parallelamente, il PD continua a fare i conti con un’emorragia di voti che viene da lontano. Dalla fondazione nel 2007 a oggi, i numeri elettorali hanno subito un tracollo: oltre 12 milioni di voti nel 2008, ridotti a soli 5,4 milioni nel 2022. In termini percentuali, si è passati da vette del 33% (Veltroni 2008) a minimi storici attorno al 19% (nel 2018 e di nuovo nel 2022). Questo declino è frutto sia del calo di affluenza sia della dispersione dei consensi del centrosinistra verso altri soggetti (il Movimento 5 Stelle su tutti) e verso l’astensione. La segreteria Schlein aveva inizialmente ridato slancio – alle Europee 2024 il PD è risalito al 24,5% dei voti, il suo miglior risultato da anni – ma il partito resta comunque lontano dai fasti di un tempo e soprattutto ancora dietro all’avversario principale, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (prima forza al 28-30% circa). Dopo la sconfitta del 2022 e un decennio segnato da scissioni e abbandoni (da Renzi e Calenda fino ai recenti addii di alcuni parlamentari moderati dopo l’elezione di Schlein), il PD appare ancora in cerca di una rotta stabile.
In sintesi, Schlein conclude la sua stagione da segretaria con un partito vivace ma diviso, che ha sì riconquistato qualche punto percentuale ma rischia di non sfondare finché rimane ostaggio di lotte intestine e di una base elettorale in contrazione. La domanda cruciale è: cambiare rotta per riconquistare il centro politico e gli elettori moderati, oppure proseguire sull’identità progressista marcata col rischio di restare forza di minoranza?.

Identità in bilico: serve una svolta verso il centro?
Uno dei rimproveri principali rivolti alla gestione Schlein è stato di aver mantenuto una linea poco dialogante con il mondo moderato. Personalità centriste e commentatori hanno accusato il PD “schleiniano” di essersi spostato troppo a sinistra, fin quasi a confondersi con i partitini radicali. Il direttore Pietro Senaldi ha osservato polemicamente che “Schlein è più vicina a Fratoianni che al PD: si sta giocando l’elettorato moderato”. In effetti, sotto la sua guida il partito ha privilegiato temi e toni cari all’elettorato progressista più militante – diritti civili, giustizia sociale, ambientalismo spinto – rischiando però di alienare settori centristi, riformisti e liberal-democratici. I cattolici democratici, ad esempio, si sono sentiti marginalizzati, tanto da organizzarsi in nuove associazioni culturali (come “Comunità democratica” lanciata dall’ex ministro Delrio) per chiedere più spazio.
In un paese come l’Italia, dove le elezioni si vincono al centro, la capacità di attrarre voti moderati è decisiva. L’attuale governo di destra lo dimostra: Giorgia Meloni guida un blocco compatto che va dai conservatori di Fratelli d’Italia ai moderati di Forza Italia, monopolizzando di fatto quell’elettorato centrista (ex democristiano, liberale, pragmatico) indispensabile per superare il 40% a livello di coalizione. “Il centro è nel centrodestra”, ha osservato amaramente Maurizio Lupi di Noi Moderati, rivendicando come quell’area oggi propenda per Meloni e alleati. Per il PD, tornare centrale sulla scena politica significa quindi recuperare credibilità verso questo mondo moderato: ceto medio produttivo, amministratori locali pragmatici, elettori riformisti e anche ex simpatizzanti renziani/calendiani.
Già negli ultimi mesi si è notato un tentativo, da parte di Schlein, di correggere parzialmente la rotta: la segretaria ha moderato i toni su alcuni dossier (ad esempio cercando un dialogo con le imprese e visitando distretti industriali, affiancata proprio dal governatore Stefano Bonaccini in veste di “ambasciatore” verso i mondi produttivi. Si parla anche di un’ossessione per un “centrismo” che non è nelle corde dell’italiano di oggi. Ma forse questi aggiustamenti sono arrivati tardi e non sono bastati a scrollarle di dosso l’immagine di leader ideologica e poco incline al compromesso. Gli esponenti PD più centristi sono convinti che serva una svolta più netta: tornare a un profilo riformista e pragmatico, sul solco dei governi Ulivo/Unione o della segreteria Renzi. Del resto, fu proprio con un forte spostamento al centro che Matteo Renzi portò il PD al famoso 40,8% nelle Europee 2014 (record storico) – salvo poi pagarne il prezzo con la frattura a sinistra e il crollo del 2018. L’equilibrio tra anima progressista e anima moderata è da sempre il difficile bivio del PD.
Oggi, di fronte a una destra unita al 45% e a un’opposizione frammentata, molti analisti ritengono indispensabile riagganciare i voti moderati dispersi. Questo implica non solo un cambio di stile comunicativo, ma anche alcune scelte politiche simboliche: ad esempio, dialogare senza pregiudizi con personalità come Mario Draghi (Schlein fu criticata per non averlo incontrato quando era premier), evitare derive considerati “radical-chic” o giustizialiste, e recuperare temi cari all’elettorato centrista (sicurezza, riduzione tasse sul lavoro, sostegno alla famiglia, europeismo atlantico chiaro). Insomma, un possibile ritorno a un PD “di governo” più che “di lotta”. È un percorso tutt’altro che semplice: significa scommettere che si vincano più voti al centro di quanti se ne perderebbero a sinistra. Ma senza questa mossa, il rischio è restare confinati in un 20-25% che non consente di battere Meloni. Non a caso, Matteo Renzi – pur dall’esterno – sta incoraggiando questa evoluzione: secondo indiscrezioni, l’ex premier starebbe tenendo un profilo basso con Schlein proprio in attesa che il PD la sostituisca con un leader più moderato, con cui lui possa dialogare. In gioco non c’è solo l’identità del PD, ma la possibilità stessa di costruire un’alternativa di governo credibile.

Il “campo largo” alla prova di una svolta moderata
La strategia del cosiddetto “campo largo” – l’alleanza elettorale tra il PD, il Movimento 5 Stelle e la sinistra (Verdi/Sinistra Italiana) – è stata il pilastro della linea Schlein. L’idea era un fronte unito di tutte le opposizioni progressiste per provare a superare il centrodestra. Ma questa coalizione larga si è sempre retta su equilibri precari, e un eventuale spostamento del PD verso posizioni più centriste rischierebbe di farla saltare del tutto. Giuseppe Conte, leader del M5S, già nell’ottobre 2024 aveva dichiarato in TV che “il campo largo non esiste più”, sancendo uno strappo netto con il PD proprio in vista di alcune elezioni regionalifirstonline.info. Il casus belli fu la disponibilità dei Democratici ad allargare le alleanze includendo anche l’area centrista di Italia Viva. Conte, fermamente contrario a qualunque intesa con Matteo Renzi, ruppe: “Renzi è una bomba a orologeria, come facciamo a presentarci agli elettori insieme a lui?” attaccò l’ex premier pentastellato, definendo “inaccettabile” l’ipotesi di avere il leader di IV nella stessa coalizionefirstonline.info. Ne seguì uno scambio al vetriolo: “Non accettiamo veti” replicò Renzi, mentre dal PD Stefano Bonaccini bollò come “inaccettabili” le pregiudiziali poste da Conte. Insomma, il fronte si spaccò in modo clamoroso, con Meloni spettatrice interessata: “Quando l’opposizione litiga, Giorgia brinda”, ha chiosato un deputato demfirstonline.info.
Questo episodio evidenzia un punto cruciale: se il PD vira al centro e riapre ai cosiddetti “terzopolisti” (Renzi, Calenda e affini), molto probabilmente perderà l’alleanza organica con il M5S. Conte ha investito la propria leadership su un profilo anti-establishment e mal digerirebbe un accordo strutturale con chi, come Renzi, incarna l’establishment moderato (oltre ad averlo fatto cadere dal governo nel 2021). Anche i partner minori a sinistra, Sinistra Italiana di Fratoianni e i Verdi di Bonelli, faticano ad accettare un’eventuale svolta centrista: vedrebbero tradito il progetto di un polo progressista alternativo sia alla destra sia al “centro liberale”. Le loro riserve sono note: secondo alcuni retroscena, Fratoianni e Bonelli “digerirebbero a fatica” un’operazione che sposti l’asse a destra. Dunque, un nuovo segretario PD di orientamento moderato potrebbe ritrovarsi senza gli attuali alleati di sinistra. Il risultato sarebbe la fine del campo largo versione Schlein e la nascita, semmai, di un “campo nuovo” più ristretto, imperniato sul PD e sulle forze centriste (IV, Azione e magari +Europa), con il M5S relegato a concorrente autonomo.
Quali sarebbero le conseguenze elettorali? Difficile dirlo. Da una parte, in molti territori l’alleanza PD–M5S si è rivelata necessaria per competere con la destra: basti pensare alle elezioni regionali, dove presentarsi divisi significa quasi certamente perdere. Emblematico il caso della Liguria nel 2024: PD e 5S insieme hanno perso comunque contro il centrodestra, ma da soli non avevano alcuna chance. D’altra parte, però, l’abbraccio con i 5 Stelle ha anche allontanato gli elettori moderati e l’elettorato riformista. La politologa e eurodeputata Elisabetta Gualmini (PD) dopo l’ennesima sconfitta lo ha detto chiaramente: “Basta rincorrere il M5S. I veti di Conte su Renzi ci hanno penalizzato e non è più accettabile”. In pratica, tenendo dentro Conte ma escludendo Renzi/Calenda, il centrosinistra ha perso al centro più di quanto abbia guadagnato a sinistra. Non va dimenticato che alle Politiche 2022 l’assenza di un accordo tra PD e 5S (all’epoca Conte rifiutò ogni intesa) fu uno dei fattori che spianarono la vittoria di Meloni. Ma è altrettanto vero che, con l’attuale legge elettorale maggioritaria di coalizione, dividere il fronte anti-destra in due poli (uno moderato guidato dal PD e uno “populista” guidato dal M5S) rischia di condannare entrambi alla minoranza. Una riedizione della gara fratricida fra PD e M5S già vista nel 2018, quando vinse la destra grazie alla loro divisione.
In definitiva, il PD dovrà scegliere quale schema privilegiare. Una nuova svolta moderata implicherebbe lavorare a un’alleanza diversa: magari un “campo largo 2.0” che includa i centristi ex-PD (oggi in IV/Azione) e realtà civiche, sacrificando però l’intesa organica con Conte. Ciò potrebbe portare a un riassetto tripolare: Meloni a destra, Conte leader del polo populista-progressista, e un PD rinnovato al centro-sinistra. Uno scenario da cui il centrodestra uscirebbe avvantaggiato, almeno nel breve termine, potendo contare sulla divisione degli avversari. Tuttavia, alcuni calcoli indicano che un polo riformista-centrista (PD+IV+Azione+altre liste moderate) potrebbe aspirare a superare il 30% recuperando voti oggi astensionisti o dispersi – diventando così competitivo soprattutto in caso di ballottaggi o nuove leggi elettorali. Non a caso Matteo Renzi, pur avversario esterno, sta “seminando il campo” per questa evoluzione: ha abbracciato Schlein in pubblico e sostenuto il progetto di un’alleanza larga, ma secondo Il Dubbio, nel retroscena già citato, il senatore di Rignano sta anche incoraggiando i riformisti dem a preparare il dopo-Schlein, immaginando un PD più moderato con cui fare asse. In privato, i renziani ricordano che Conte – al di là delle schermaglie – ha mantenuto rapporti civili con loro in passato e potrebbe magari convergere su obiettivi comuni anti-destra. Fantapolitica? Forse. Ma in politica mai dire mai: molto dipenderà dai rapporti di forza dopo le prossime scadenze elettorali (europee e amministrative) e dalla volontà reciproca di non consegnare il paese per altri anni a Meloni. Di certo, un PD che tornasse a parlare anche ai moderati cambierebbe gli equilibri e costringerebbe sia Conte sia Calenda/Renzi a rivedere le proprie strategie.

Il toto-segretario: nomi in campo (e sorprese)
Se davvero si andrà verso una svolta, è probabile che essa passi attraverso un cambio di leadership. Elly Schlein, eletta solo nel 2023, ha ancora il mandato in teoria fino al 2027, ma i suoi stessi sostenitori hanno ipotizzato un congresso anticipato già a inizio 2026. Ufficialmente, l’idea nasce per darle una “rieleggibilità” prima delle elezioni politiche del 2027, consacrandola candidata premier con un nuovo mandato popolare. In realtà, molti pensano che Schlein possa decidere di farsi da parte se il progetto politico dovesse fallire nelle urne intermedie (ad esempio le regionali del 2025) o se il partito chiedesse un cambio di rotta. Chi potrebbe guidare il PD nell’era post-Schlein? Ecco i nomi più discussi nelle ultime settimane nei retroscena politici:
- Stefano Bonaccini – Presidente dell’Emilia-Romagna ed ex sfidante di Schlein alle primarie 2023, rappresenta l’ala riformista moderata. Leale con Schlein durante la sua segreteria, è però considerato il “piano B” naturale se il PD scegliesse di virare al centro. Bonaccini gode di esperienza amministrativa e di buoni rapporti sia con base che establishment: il suo nome è il primo che circola in caso di cambio al Nazareno.
- Pina Picierno – Europarlamentare e vicepresidente del Parlamento UE, esponente di spicco dei riformisti interni. È stata tra le più critiche verso Schlein su temi come la politica estera, guidando la “fronda” pro-NATO a Strasburgo. Picierno ambirebbe a candidarsi come alternativa interna ma alcuni nel PD temono che una sua candidatura possa rivelarsi debole: secondo il manifesto, una sua corsa sarebbe a rischio “bagno di sangue” alle primarie dato il profilo meno popolare presso gli iscritti. Resta comunque una figura centrale nell’area anti-Schlein.
- Antonio Decaro – Sindaco di Bari (e fresco candidato alla presidenza della Puglia). Popolare amministratore locale, ha un profilo moderato e pragmatico. Il suo nome circolava insistentemente come possibile successore, specie gradito ai notabili del Sud e all’area Guerini-Gentiloni. Tuttavia, se – come pare probabile – Decaro verrà eletto governatore pugliese nell’autunno 2025, difficilmente poi si lancerà pochi mesi dopo nella corsa alla segreteria. La sua ascesa regionale, paradossalmente, lo allontana dalla leadership nazionale nell’immediato.
- Giorgio Gori – Eurodeputato ed ex sindaco di Bergamo, è un altro nome che sta emergendo nei corridoi romani. Gori, vicino a Renzi in passato, incarna un PD liberal e attento al mondo produttivo (non a caso è stato un affermato produttore televisivo). Secondo il Manifesto, Gori sta valutando la corsa e può contare su risorse e radicamento nel Nord, rappresentando “plasticamente un PD moderato, vicino alle imprese e ai salotti buoni. Potrebbe candidarsi come portabandiera dei riformisti se altri dovessero defilarsi.
- Una sorpresa “civica” – C’è chi, tra i Dem, pensa che per voltare davvero pagina serva un volto nuovo, magari esterno agli apparati di partito. In questo senso, il nome sorprendente emerso è quello di Silvia Salis, 39 anni, ex atleta e fresca sindaca di Genova (eletta nel 2025). Salis non viene dalla politica tradizionale: è una figura civica, moderata nei toni, capace di unire tutto il centrosinistra quando ha conquistato Genova. Proprio questa sua estraneità alle correnti la rende interessante. Un “gruppetto, con Gori in testa, guarda sempre di più a Silvia Salis”, riferisce il Fatto Quotidiano, accarezzando l’idea di proporla come candidata segretaria fuori dagli schemi. Sarebbe una svolta generazionale e un segnale di discontinuità forte – uno scenario ancora ipotetico, ma non impossibile se le divisioni interne impasse dovessero richiedere un nome aggregante e “nuovo”.
Oltre a questi, altri nomi potrebbero emergere: dall’ex ministro Lorenzo Guerini (leader dei moderati cattolici interni) al sindaco di Firenze Dario Nardella, fino a personalità di esperienza come Paolo Gentiloni (che, terminato il mandato europeo, potrebbe rientrare nei giochi). Tuttavia, l’orientamento generale sembra chiaro: il prossimo segretario, se Schlein dovesse lasciare, avrà con ogni probabilità un profilo più centrista e conciliatore. Non va escluso neppure un tentativo della stessa Schlein di giocare d’anticipo: i suoi fedelissimi suggeriscono di convocare primarie interne già nel 2026, per cercare una nuova investitura popolare che la confermi leader e candidata premier. Questa mossa servirebbe a “stanare” eventuali sfidanti quando forse non saranno ancora pronti (ad esempio se Decaro sarà appena insediato in Regione). Ma è presto per sapere se davvero accadrà.
In ogni caso, il PD post-Schlein dovrà scegliere il suo futuro timoniere non solo in base ai volti, ma soprattutto in base alla linea politica che intende adottare. Sarà un leader di svolta moderata, capace di ricucire con il centro e magari di dialogare tatticamente anche con Renzi e Calenda? Oppure prevarrà la linea di sinistra, mantenendo l’asse con Conte e provando a crescere “per addizione” a sinistra? La posta in gioco è altissima: c’è da ricostruire un campo di centrosinistra competitivo, frenare l’emorragia di consensi e preparare la sfida per scalzare Giorgia Meloni da Palazzo Chigi. Il partito della nazione democratica (come qualcuno sognava ai tempi di Veltroni) saprà rinascere dalle sue ceneri? Molto dipenderà da come il PD risolverà le proprie contraddizioni identitarie e da chi ne prenderà le redini. I prossimi mesi, aggiornati a settembre 2025, saranno decisivi: tra congressi anticipati, elezioni regionali cruciali e rimescolamenti di alleanze, il cantiere del nuovo PD è aperto. L’unica certezza è che servirà una svolta – di metodo e di merito – per tornare centrali sulla scena politica italiana e ambire davvero a insidiare la leadership del centrodestra a trazione Meloni. Le sfide non mancano; le soluzioni, al momento, sono tutte da costruire. Il cammino del PD, tra storia e rinnovamento, continua.