
Il discorso di Giorgia Meloni all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è stato uno degli interventi più completi e articolati della sua presidenza. Non ha avuto l’impronta della propaganda, ma la misura di chi vuole collocare l’Italia dentro i grandi scenari globali. Ha esordito richiamando un dato impressionante: cinquantasei violazioni della Carta delle Nazioni Unite dall’inizio del secolo. Non per denunciare soltanto, ma per osservare come l’architettura internazionale pensata all’indomani della Seconda guerra mondiale non regga più l’urto delle crisi contemporanee. “Serve un nuovo patto di responsabilità e di efficacia, altrimenti la comunità internazionale resterà paralizzata”, ha detto, indicando che il problema non è demolire l’ONU, ma riformarlo in profondità. Una riflessione che non si limita a fotografare i limiti dell’attuale sistema, ma che guarda a una sua trasformazione, perché senza un multilateralismo rinnovato le regole rischiano di diventare carta priva di valore.
Israele e Palestina: equilibrio difficile ma necessario
Sul conflitto in Medio Oriente Meloni ha usato parole nette, parlando di un Israele che “ha superato il limite” nelle sue operazioni a Gaza. Non è un’affermazione scontata, soprattutto da parte di un capo di governo europeo che deve tenere conto delle pressioni interne ed esterne, degli equilibri atlantici e del peso di una protesta di piazza spesso sbilanciata in senso opposto. In molti Paesi europei, infatti, la denuncia dei bombardamenti israeliani si è trasformata in un indistinto sostegno alla causa palestinese senza distinzioni, fino a sfociare in una retorica che di fatto legittima Hamas. Meloni ha scelto un’altra strada: ha detto la verità su ciò che non funziona nella condotta di Israele, ma non ha ceduto alla tentazione di inseguire slogan o di farsi trascinare dal clamore delle manifestazioni.
La presidente del Consiglio ha chiarito che nessuno può mettere in discussione il diritto di Israele a vivere in sicurezza. Ha indicato la soluzione dei due Stati come unica prospettiva credibile, ma vincolandola a condizioni essenziali: la liberazione degli ostaggi e l’esclusione di Hamas da qualsiasi ruolo politico. Sono parole che fotografano la realtà: non ci sarà pace finché i civili israeliani resteranno prigionieri nelle mani dei terroristi, e non ci sarà futuro finché la striscia di Gaza resterà governata da un’organizzazione che ha fatto della violenza la sua ragione di esistenza. Dire questo all’ONU significa non nascondersi dietro formule di comodo, ma assumersi la responsabilità di un linguaggio di verità.
Quello che colpisce, in questa parte del discorso, è la capacità di Meloni di non farsi dettare l’agenda dalle piazze. Non ha parlato per strizzare l’occhio ai cortei occidentali che invocano “Palestina libera” senza distinguere tra popolo palestinese e milizie armate. Non ha rincorso la retorica di chi, in Europa, riduce tutto a uno schema semplicistico di oppressi contro oppressori. Ha scelto la via più difficile: dire che Israele sta sbagliando, ma che Hamas resta un nemico della pace. È una posizione che non scalda le folle, ma che restituisce dignità alla politica internazionale.
Ucraina e sovranità: fermezza nel diritto internazionale
Sulla guerra in Ucraina il discorso ha richiamato il fondamento del diritto internazionale: la sovranità e i confini degli Stati non si trattano, non si piegano alla logica della forza. “Senza il rispetto delle regole internazionali nessuno Stato è al sicuro”, ha ammonito. Ha denunciato la violazione russa della Carta dell’ONU e chiarito che non può esserci pace se non c’è disponibilità a interrompere l’aggressione. Qui non c’è stata enfasi retorica, ma l’affermazione di un principio che riguarda l’Ucraina come qualunque altro Paese, inclusa l’Italia. Difendere Kiev significa difendere l’idea stessa di legalità internazionale.
La parte più ambiziosa del discorso è stata quella dedicata alla riforma dell’ONU. Meloni ha sottolineato che il Consiglio di Sicurezza, concepito per un mondo a blocchi, non riesce più a governare i conflitti, e che la paralisi delle istituzioni multilaterali rischia di aggravare le crisi. Ha evocato la necessità di nuove regole per affrontare i temi migratori, la gestione dei rifugiati, la sicurezza internazionale, ma soprattutto la questione della rappresentanza. L’attuale sistema, con i soli cinque membri permanenti dotati di diritto di veto, riflette un equilibrio di potere ormai superato. Riformare il Consiglio di Sicurezza, ampliandolo con nuovi membri permanenti, è la vera sfida: dare voce a potenze regionali e continenti oggi sottorappresentati significherebbe restituire legittimità a un’istituzione che rischia di perdere ogni credibilità.
Europa e responsabilità: occasione da non sprecare
Il passaggio implicito, ma decisivo, riguarda l’Europa. Oggi, di fronte al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, l’Europa è posta davanti a un bivio: assumersi la responsabilità della difesa comune o restare nella comoda posizione del rimprovero verso Washington. Trump ha chiesto agli alleati di farsi carico dei costi della difesa di Kiev. In molte capitali europee questa richiesta è stata percepita come un’imposizione, quasi una punizione. Eppure il ragionamento dovrebbe essere rovesciato: se ci viene chiesto di pagare di più, significa che possiamo contare di più. Vuol dire che ci viene restituita una quota di sovranità che da decenni avevamo delegato.
L’Europa ha l’occasione di crescere, di diventare adulta sul piano strategico, di costruire finalmente una difesa comune che non sia un esercizio retorico ma un fatto politico e militare. Non è una minaccia, ma una chance che dovremmo accogliere con lucidità. Festeggiare questa nuova responsabilità, anziché lamentarcene, sarebbe il segno di una maturità che ancora manca. Per l’Italia, significherebbe ritagliarsi uno spazio non marginale, non ridursi a eseguire decisioni altrui, ma concorrere a definire la linea del continente.
Il discorso di Meloni ha avuto il merito di collocare l’Italia dentro la conversazione che conta. Ha mostrato che si può parlare con equilibrio anche dei conflitti più divisivi, senza rinunciare alla fermezza dei principi. Ed è questo, al di là delle appartenenze, il tratto che distingue un intervento di statura internazionale: la capacità di guardare al presente non come a una somma di emergenze, ma come a un passaggio che richiede visione e responsabilità.