
Il Ministero degli Esteri israeliano ha lanciato un messaggio chiaro e diretto, veicolato tramite un post sulla piattaforma X (precedentemente Twitter), rivolgendosi ai partecipanti di quella che viene definita la “flottiglia Hamas-Sumud”. La comunicazione non lascia spazio a interpretazioni ambigue: Israele ha avanzato una proposta alternativa per la consegna degli aiuti umanitari, ponendo al contempo un forte accento sulla legittimità del blocco navale imposto e sulla necessità di discernere tra azione umanitaria e pura provocazione politica. Il cuore del messaggio risiede nell’offerta di permettere lo scarico degli aiuti in un “qualsiasi porto di un paese vicino” a Israele, dal quale le merci potrebbero poi essere inoltrate in modo “pacifico a Gaza”.
Questa offerta mira a risolvere la questione umanitaria senza compromettere la sicurezza israeliana o consentire la violazione del blocco marittimo in una zona definita come di “combattimento attivo”. La mossa diplomatica-informativa israeliana solleva, dunque, la questione fondamentale sulle vere intenzioni della flottiglia: la priorità è la consegna degli aiuti o piuttosto la violazione simbolica e mediatica del blocco?
La proposta alternativa di Israele
Il fulcro della posizione israeliana è rappresentato da una proposta pratica e, a loro dire, logistica. Il Ministero degli Esteri ha esplicitamente invitato la flottiglia a deviare la propria rotta e a dirigersi verso un porto terzo, situato in un “paese vicino” e “fuori da Israele”. L’obiettivo di questa strategia è duplice. In primo luogo, essa mira a facilitare la consegna effettiva e sicura degli aiuti al popolo di Gaza, dimostrando una volontà di cooperazione sulla questione umanitaria. In secondo luogo, e non meno importante dal punto di vista strategico di Gerusalemme, essa serve a preservare l’integrità del blocco navale in vigore. L’idea è quella di stabilire un corridoio indiretto ma riconosciuto per il trasferimento dei beni essenziali, garantendo che gli aiuti raggiungano la popolazione senza che le navi violino lo spazio marittimo sotto controllo israeliano o entrino in una zona di potenziale conflitto. Il testo specifica chiaramente che, una volta scaricate in un porto neutrale o amico, le merci “potranno essere trasferite pacificamente a Gaza”, sottintendendo la disponibilità a collaborare con le autorità competenti per il transito finale via terra o attraverso altri meccanismi di coordinamento già esistenti.
Blocco navale e zona di combattimento attivo
Israele ha reiterato con fermezza la sua determinazione a non tollerare l’ingresso delle navi della flottiglia nella zona di mare immediatamente adiacente a Gaza. La motivazione addotta si basa su due pilastri legali e strategici: la classificazione della zona come “zona di combattimento attivo” e la legittimità del “blocco navale”. Il blocco, imposto da anni, è considerato da Israele una misura di sicurezza essenziale per impedire il contrabbando di armi e materiali a duplice uso che potrebbero essere utilizzati da Hamas e da altri gruppi militanti. La navigazione non autorizzata in questa area viene, quindi, percepita come una diretta minaccia alla sicurezza nazionale. Permettere l’ingresso della flottiglia, sostengono le autorità israeliane, creerebbe un pericoloso precedente e indebolirebbe una misura di difesa considerata vitale. Il post di X sottolinea che Israele “non consentirà” tale violazione, evidenziando una linea rossa invalicabile. Questo posizionamento intende stabilire chiaramente che qualsiasi tentativo di forzare il blocco sarà interpretato e trattato come un atto non umanitario, ma di natura ostile o provocatoria.
Il dilemma: aiuti o provocazione?
La domanda conclusiva posta dal Ministero degli Esteri israeliano – “Si tratta di aiuti o di provocazione?” – è un potente strumento retorico che riassume la sfida lanciata alla flottiglia. Attraverso questa interrogazione, Israele sposta l’onere della prova sulle intenzioni degli organizzatori. Se l’obiettivo principale è genuinamente la consegna degli aiuti umanitari, l’accettazione della proposta di scaricare le merci in un porto vicino rappresenterebbe la via più logica, rapida e meno rischiosa per raggiungere l’obiettivo. Il rifiuto di tale proposta, al contrario, verrebbe interpretato da Israele come una prova del fatto che il vero scopo dell’operazione non sia la beneficenza, ma la ricerca di una confrontazione politica e mediatica per mettere in discussione la legittimità del blocco e generare titoli di giornale internazionali, potenzialmente anche a costo di un incidente in mare. L’associazione esplicita della flottiglia con i nomi di “Hamas-Sumud” nel testo originale mira a delegittimare l’iniziativa, suggerendo che essa serva gli interessi di un gruppo designato come terrorista piuttosto che le esigenze umanitarie della popolazione civile di Gaza. In sintesi, Israele chiede agli attivisti di dimostrare la priorità dell’umanitarismo sulla politica.