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Quando Gabriele D’Annunzio volò sui cieli di Vienna

Pubblicato: 25/09/2025 08:00

Italiani e austriaci fermi sul Piave

Nell’agosto del 1918, dopo tre anni di guerra che sembravano non finire mai, il fronte italiano era come congelato sul Piave. Da mesi le trincee erano sempre quelle: fango, filo spinato, e soldati che si guardavano da una riva all’altra. L’Impero asburgico, dall’altra parte del fiume, non era più il colosso minaccioso di un tempo: scricchiolava, si sfaldava, arrancava. Era l’ultima estate della guerra e anche gli Imperi Centrali, gonfi di retorica e di stanchezza, cominciavano a cedere. Ma, come spesso accade, la percezione conta più della realtà. E in Italia serviva qualcosa che facesse credere a tutti che la vittoria fosse vicina.

Il poeta e la propaganda

La macchina della propaganda, mai ferma, si rimise in moto. In guerra contano le armi, ma contano anche le parole: tengono in piedi gli uomini e le nazioni. L’occasione arrivò quando il governo e il Comando Supremo decisero di dare spazio a un’idea che Gabriele D’Annunzio, il poeta soldato, cullava da mesi. Non un attacco militare, ma un colpo di teatro: un volo su Vienna. Lo scopo? Non distruggere, ma colpire l’immaginazione. All’alba del 9 agosto, dall’aeroporto di Treviso si levarono undici velivoli della squadriglia “Serenissima”, uno dei quali adattato per ospitare l’ingombrante passeggero che, più che un soldato, era una prima donna. Con sé portavano 390.000 volantini, scritti in italiano e in tedesco. Quarantamila erano di D’Annunzio: lirici, minacciosi, un misto di canto e di sfida. Gli altri, redatti da Ugo Ojetti, giornalista e penna sottile, erano più sobri ma non meno efficaci.

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Il viaggio verso Vienna

Volare verso Vienna non era una gita di piacere. Quegli apparecchi, fragili e leggeri come libellule, dovevano attraversare le linee nemiche, sfuggire alle mitragliatrici, alla contraerea e infine penetrare nel cuore della capitale austriaca. Degli undici partiti, solo sette arrivarono a destinazione. E tra questi, naturalmente, quello con a bordo il Vate. Era il 9 agosto, e sopra i tetti di Vienna si aprì il portellone. Non caddero bombe, ma una pioggia di fogli che il vento sparse sulle piazze e sui viali. Sembravano farfalle di carta, e in fondo lo erano: fragili, effimere, ma cariche di un messaggio che colpiva al cuore più di un proiettile. L’Italia dimostrava di poter dominare anche il cielo.

Le parole e la memoria

D’Annunzio, fedele al suo ruolo di protagonista assoluto, raccontò poi la missione in una lettera al direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini, al quale affidava sempre i suoi pensieri più intimi prima di partire per rischi del genere. Febbre, rinunce, tentativi falliti, e infine la decisione irrevocabile: “Nulla avrebbe potuto impedirmi di andare fino a Vienna”, scrisse. Non era solo un’operazione bellica: era una sceneggiata, un gesto di teatro che restò nella memoria più di tante battaglie. Perché in guerra le parole e le immagini contano quanto i colpi di cannone. E quelle farfalle di carta, posandosi sui tetti di Vienna, segnarono la vittoria non di un esercito, ma di un’idea.

Stefano Poma

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Ultimo Aggiornamento: 25/09/2025 09:47

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