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Accadde oggi, 27 settembre 1957: Morte di Leo Longanesi

Pubblicato: 27/09/2025 07:47

Era il millenovecentoventisette quando, su L’Assalto di Bologna, diretto dal fascistissimo Giorgio Pini, apparve l’autobiografia di un ragazzo che sapeva già come scandalizzare: Leo Longanesi. Scrisse di essere nato a Bagnacavallo nell’agosto del 1805, quando in realtà era venuto al mondo cent’anni dopo. Non era un refuso, ma una dichiarazione d’intenti. Longanesi era un uomo dell’Ottocento, benché fosse cresciuto nel Novecento. Un secolo di sigari e di vecchi libri, di buoni costumi e tradizioni solide, che gli restarono addosso per tutta la vita. Nel suo “Vademecum del perfetto fascista” coniò frasi che sarebbero rimaste nella storia del regime: “Mussolini ha sempre ragione” e “Taci, il nemico ti ascolta”. Ma il Longanesi fascista lo fu più per Mussolini che per il fascismo. Quando il Duce cadde, anche lui dovette fuggire. Quel ragazzo di Bagnacavallo, che si professava superficiale e adoratore delle apparenze, si trovò inviso ai nazifascisti, e non meno sospetto agli antifascisti.

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Un anarchico conservatore

Longanesi fu fascista di prima ora, quando il fascismo era ancora roba di provincia: le sagre, i piazzali, le feste paesane. Non c’era ancora l’impero, non c’erano le fanfaronate sulla razza, e soprattutto non c’era l’“uomo nuovo” che pretendeva di cancellare le vecchie tradizioni italiane. Era il fascismo romagnolo, quello che si mischiava con l’anarchia del nonno Leopoldo Marangoni, quello di Strapaese, che celebrava il campanile, la cucina di casa e il dialetto. Mussolini stesso gli disse una volta, passeggiando sulla spiaggia di Cesenatico: «Voi siete anarchico, siatelo per molti anni finché potete. È una ricetta per restare giovani». Longanesi prese alla lettera quel consiglio, restando anarchico e conservatore nello stesso tempo. Così, all’8 settembre, si ritrovò stretto tra due fuochi: i fascisti che lo accusavano di tradimento e gli antifascisti che lo accusavano di complicità.

Il dopoguerra e la solitudine

Dopo la caduta del fascismo, Longanesi trovò rifugio a Napoli. Nel diario lasciò pagine intrise di amarezza: noia, miseria, pioggia, cavoli bolliti e la domanda che lo tormentava ogni giorno: “Che cosa faremo?”. A quarant’anni, quando gli ideali si erano già sbriciolati, non era facile ricominciare. Nell’Italia del dopoguerra, dove tutti si scoprirono improvvisamente antifascisti, Longanesi divenne un capro espiatorio. Montanelli ricorda che, appena arrivato a Milano nel giugno del ’45, il giornale L’Italia Libera si rammaricava che non fosse giunto in tempo per essere appeso a piazzale Loreto. Il caso volle che l’indomani lo stesso redattore incontrasse Longanesi in un locale di via Montenapoleone, popolato di partigiani. Fu allora che Leo, salendo su una sedia e additandolo con finta indignazione, gridò: «È un antifascista! Prendetelo!». La battuta lo salvò. E riassume tutta la sua vita: sempre tra due fronti, sempre fuori posto, sempre con un’ironia che gli teneva compagnia.

Stefano Poma

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Ultimo Aggiornamento: 27/09/2025 08:36

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