
Una sentenza durissima, quella arrivata nei confronti di Riccardo Chiarioni, il giovane che nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre 2024 uccise con ferocia i suoi genitori e il fratello di soli 12 anni. Il Tribunale per i minorenni di Milano lo ha condannato a 20 anni di reclusione, il massimo della pena previsto con rito abbreviato. Una decisione motivata in 51 pagine dalla giudice Paola Ghezzi, che ha descritto il ragazzo come «lucido e determinato» nell’organizzare e portare a termine il massacro.
Secondo il verdetto, il 17enne, oggi quasi 19enne, non era affetto da vizio di mente e sapeva distinguere «la realtà dall’immaginazione». Nonostante la presenza di un disturbo psichiatrico riconosciuto, la magistrata ha stabilito che quel quadro clinico non abbia inciso sulla sua capacità di intendere e volere. Per la giudice Chiarioni ha agito «in modo spietato», guidato da rabbia e odio narcisistici accumulati nel tempo, ma soprattutto con piena consapevolezza delle proprie azioni.
La condanna e la linea della difesa

Il difensore, l’avvocato Amedeo Rizza, ha annunciato ricorso in appello, contestando la decisione. «Il giudice non ha preso atto della concreta incidenza della patologia di Riccardo sul reato commesso», ha dichiarato, ricordando come la perizia dello psichiatra Franco Martelli avesse accertato una seminfermità mentale. La sentenza, tuttavia, non ha riconosciuto questa parziale incapacità, ritenendo invece che il giovane fosse pienamente lucido nel programmare e variare le proprie azioni prima, durante e dopo l’omicidio.
Il tribunale ha concesso le attenuanti generiche, ma applicandole in misura tale da non ridurre la pena al di sotto del massimo consentito. Un segnale chiaro della gravità con cui sono stati valutati i comportamenti dell’imputato, ritenuto capace di manipolare le circostanze e perfino di tentare di depistare le indagini.
La premeditazione e la trappola in casa
Per la giudice Ghezzi, l’aggravante della premeditazione è stata pienamente dimostrata. Chiarioni aveva iniziato a pianificare il massacro almeno un giorno prima, scegliendo di colpire nella notte successiva alla festa di compleanno del padre, quando tutti dormivano. Prima uccise il fratellino, poi attirò i genitori nella sua stanza, trasformata in una trappola mortale, per colpirli alle spalle e infierire anche sui loro corpi già esanimi.
Una violenza descritta come «accanimento», alimentata da un sentimento di odio che si era trasformato in vera e propria ossessione. Emblematico anche il tentativo di manipolare la realtà: inizialmente il ragazzo aveva cercato di scaricare la colpa prima sulla madre, poi sul padre e infine su sé stesso, ma solo quando si rese conto che la versione fornita non reggeva di fronte alle indagini.
Un malessere nascosto dietro l’immagine del bravo ragazzo
Per amici e conoscenti era il figlio modello, un ragazzo che non dava problemi. In realtà, sotto quella facciata, covava un profondo malessere. Lo stesso Chiarioni, davanti ai magistrati, parlò di quel triplice omicidio come di qualcosa che «non reputava con grave impatto», mostrando una freddezza emotiva che ha impressionato gli inquirenti.
Un contrasto che ha reso ancora più incomprensibile la strage avvenuta a Paderno Dugnano, in provincia di Milano, dove una famiglia considerata normale e senza conflitti apparenti è stata annientata dalla furia del figlio maggiore.