
C’è un paradosso che merita di essere messo in chiaro. Da giorni assistiamo al clamore attorno alla Flotilla, decine di imbarcazioni che puntano a rompere il blocco israeliano per consegnare simbolicamente qualche sacco di farina. Una sfida che nasce da un ideologismo dogmatico, più che da un calcolo realistico. Perché ciò che viene portato a bordo non è sufficiente neppure a coprire un’ora di bisogni di Gaza, ma serve ad alimentare una narrazione, quella del gesto militante che sfida il potere.
Questa dimensione simbolica non va sottovalutata, ma nemmeno sopravvalutata. Perché mentre i riflettori si accendono sulle navi, i destini veri della popolazione palestinese si decidono altrove. A Washington, a Gerusalemme, al Cairo. Nei colloqui riservati tra leader che discutono di tregue, di scambi di ostaggi, di corridoi umanitari. È qui che prende forma il cosiddetto piano Trump per Gaza, con tutte le sue contraddizioni e ambizioni: dalla proposta di un’amministrazione internazionale di transizione fino alla promessa di un percorso verso uno Stato palestinese.
La realtà, dunque, è che il futuro di Gaza non dipenderà da cinquanta navi di attivisti, ma dalla capacità — e dalla volontà — dei grandi della Terra di piegare la politica alla pace. È un paradosso crudele: l’eroismo della protesta colpisce l’opinione pubblica, ma solo i tavoli diplomatici possono fermare le bombe. Non lo si dice per sminuire il coraggio degli attivisti, ma per ricordare che la tragedia palestinese non si risolve con un atto dimostrativo, bensì con accordi concreti, pressioni reali, compromessi dolorosi.
Qui si apre una dicotomia che attraversa la storia contemporanea: da un lato il fascino eterno del gesto rivoluzionario, dall’altro la prosa della politica istituzionale. L’icona di Che Guevara resta nella memoria collettiva come simbolo del ribelle che sfida il sistema a mani nude, mentre i governi e le istituzioni vengono ricordati per i trattati, le riforme, le conferenze diplomatiche che hanno davvero cambiato le vite di milioni di persone. Una romantica foto in bianco e nero può incendiare generazioni, ma sono i documenti firmati a Camp David, a Dayton o a Oslo che hanno posto fine a guerre concrete.
La Flotilla si iscrive in questa tradizione di gesti che accendono l’immaginario: coraggiosi, radicali, capaci di attrarre solidarietà e simpatia. Ma anche irrimediabilmente limitati. Perché se il mondo si fosse mosso soltanto sulla spinta dei simboli, non avremmo avuto l’Europa unita, la fine dell’apartheid, gli accordi sul disarmo nucleare. Per queste conquiste, spesso imperfette ma decisive, sono servite istituzioni, negoziati, compromessi.
C’è un errore ricorrente nel pensiero militante: credere che l’atto puro, la disobbedienza radicale, bastino a smuovere la storia. In realtà, senza che qualcuno traduca quella spinta in norme, strutture e rapporti di forza, tutto si riduce a testimonianza. La storia del Novecento ci insegna che i movimenti di piazza possono aprire i varchi, ma è la politica organizzata che costruisce i ponti. Senza de Gaulle non ci sarebbe stata la Francia della Quinta Repubblica, senza Adenauer e De Gasperi non ci sarebbe stata l’Europa, senza Mandela e de Klerk non ci sarebbe stata la nuova Sudafrica.
Ecco il punto centrale: gli attivisti della Flotilla agitano le coscienze, ma non hanno in mano le leve per cambiare la realtà. Quelle leve restano nelle mani dei leader, delle cancellerie, delle istituzioni sovranazionali. E qui entra in gioco il cosiddetto piano Trump: discutibile, perfino velleitario in alcuni passaggi, ma capace di spostare i rapporti di forza perché nasce dentro il cuore del potere. Non sarà una nave a stabilire se Gaza avrà o meno un futuro di pace: sarà la combinazione di pressioni americane, compromessi israeliani, garanzie arabe ed europee.
Ci possono piacere i Che Guevara di oggi, i gesti spettacolari che alimentano l’indignazione morale. Ma la storia ci dice che il mondo migliora — lentamente, faticosamente — grazie alle istituzioni. È una lezione amara per chi vorrebbe tutto e subito, ma è anche l’unica lezione realista: senza il compromesso politico, nessun ideale sopravvive alla prova del tempo.
E basta ricordare come finì in Europa: non fu la sola Resistenza a liberare il continente dal nazifascismo, ma l’intervento degli Stati alleati, con i loro eserciti, i loro governi, le loro decisioni. Anche allora, la ribellione dal basso fu vitale per dignità e coraggio, ma furono le potenze organizzate a cambiare davvero la storia.