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L’arrembaggio che sembra un film: sorrisi, bandiere e propaganda, ma nessuno pensa agli aiuti per Gaza

Pubblicato: 01/10/2025 21:14

C’è qualcosa di teatrale, quasi di grottescamente cinematografico, nell’arrembaggio alla flotilla che da giorni domina le cronache internazionali. Le telecamere inquadrano i volti compiaciuti di chi si offre allo spettacolo, i gesti rallentati che sembrano studiati per diventare fotografie virali, le parole scandite come battute di un copione che non sorprende nessuno. È tutto scritto, tutto previsto, tutto calibrato per finire nei notiziari e rimbalzare sui social. Eppure, dietro la scena patinata, resta un’amara certezza: nessuno ha davvero a cuore i palestinesi, nessuno si preoccupa se gli aiuti riusciranno ad arrivare a destinazione.

Un mare o un palcoscenico?

La verità è che questo mare è diventato un palcoscenico dove ognuno recita la sua parte. Gli attivisti salgono sulle barche con la consapevolezza che il loro ruolo non è quello di portare viveri, ma di generare immagini, provocare titoli, costringere governi e opinioni pubbliche a guardare. Non c’è spontaneità, ma una sceneggiatura che trasforma il rischio in un atto dimostrativo e la solidarietà in autopromozione. Dall’altra parte i governi, che si affrettano a condannare, schierare navi o diffondere comunicati, recitano a loro volta la parte dei difensori della legalità internazionale. Ma sanno bene che nulla cambierà, che la sorte di Gaza non dipende da quelle imbarcazioni ma da trattative altrove, nei palazzi e non in mare.

Le immagini che arrivano dalle barche sono eloquenti: non visi segnati dall’angoscia, non corpi piegati dalla paura, ma militanti che sorridono, che agitano bandiere, che alzano lo sguardo alle telecamere con l’aria di chi ha ottenuto ciò che voleva. Non si vede la drammaticità di una missione umanitaria, ma la leggerezza di un happening politico. È qui che si svela il cinismo: la tragedia palestinese diventa uno sfondo comodo, un pretesto, un elemento di scena sul quale innestare la propria performance.

Il Mediterraneo si trasforma così in un teatro all’aperto, una commedia crudele in cui gli spettatori assistono a un copione già noto e già recitato troppe volte. Da un lato c’è chi si mette in posa come eroe resistente, dall’altro chi interpreta il ruolo del difensore dei confini, e nel mezzo c’è un pubblico che consuma la vicenda come fosse un film in diretta. E intanto a Gaza restano la fame, l’assedio, la disperazione quotidiana. Ma quelle sofferenze, fuori scena, non interessano davvero a nessuno: non fanno notizia, non generano visibilità, non servono alla narrazione.

Il punto è proprio questo. In mare non si gioca la partita della pace, ma quella della comunicazione. Conta la foto giusta, la diretta social, la frase memorabile da rilanciare. Conta dire “io c’ero”, non cambiare davvero qualcosa. È un rituale di propaganda in cui ogni parte guadagna il proprio dividendo: gli attivisti conquistano ribalta internazionale, i governi dimostrano fermezza, le opinioni pubbliche si dividono in tifoserie contrapposte. E i palestinesi, quelli veri, restano solo un nome evocato, una causa simbolica, un fantasma che non entra mai davvero in scena.

Questa è la verità che il teatro in mare aperto non potrà mai coprire: siamo davanti a un’operazione politica, non umanitaria. E quando le luci si spegneranno e il sipario calerà, Gaza resterà esattamente com’è: intrappolata nella sua tragedia, senza che nessuno degli attori di questa commedia abbia mosso un passo per cambiarla davvero.

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Ultimo Aggiornamento: 01/10/2025 21:19

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