
Varsavia, 1940. L’intero quartiere ebraico fu trasformato in una prigione a cielo aperto. Prima il filo spinato, poi un muro alto tre metri e lungo undici a sigillare uomini, donne e bambini. Mezzo milione di persone stipate come bestiame. Le case, ridotte a tane, ospitavano dieci, quindici inquilini per stanza. E in quelle stanze, più che il respiro, circolava la fame e la malattia. Migliaia morivano ogni mese senza che nessuno si curasse di loro. Ma non bastava. Dal luglio del 1942 scattò la macchina delle deportazioni: treni per Treblinka, cinquemila esseri umani al giorno. In tre mesi scomparvero in duecentosessantacinquemila. Del mezzo milione, ne rimasero cinquantacinquemila, ridotti a larve ma non rassegnati. La disperazione, anziché spegnerli, li accese. E in quelle catacombe di mattoni e di miseria prese forma l’idea di resistere.

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La scintilla e l’insurrezione
Il 9 gennaio 1943 Heinrich Himmler, l’uomo che impersonava il volto gelido del Reich, fece visita al ghetto. Ordinò una nuova deportazione: ottomila ebrei. Ma quella volta la storia prese una piega inattesa. Dai nascondigli che gli abitanti avevano scavato, la resistenza scattò. Non si trattava ancora di una battaglia, ma era un segnale: l’idea che i tedeschi non avrebbero avuto mano libera. La prova generale si trasformò in rivolta aperta il 19 aprile. Himmler volle che la liquidazione del ghetto fosse il suo regalo di compleanno a Hitler. All’alba, duemila uomini delle SS e dell’esercito marciarono dentro le strade chiuse, protetti da carri armati, artiglieria leggera, lanciafiamme. Pensavano a un rastrellamento rapido. Trovarono invece il fuoco. Millecinquecento combattenti ebrei li aspettavano. Non avevano armi moderne: pistole, qualche fucile, una mitragliatrice sgangherata, bombe costruite alla meglio. Ma bastarono per bloccare l’avanzata, incendiare un paio di carri armati, uccidere decine di soldati. Quel giorno, contro ogni previsione, i tedeschi si ritirarono al calare della sera. La favola del popolo inerme era finita. La città dei vinti aveva deciso di morire da padrona di sé.
Il rogo e la fine
Il giorno dopo, la reazione nazista fu feroce. Gas, cani, fuoco. Interi isolati dati alle fiamme. I combattenti scappavano nei cunicoli, nelle fogne, nei bunker. I tedeschi li braccavano in piccoli reparti, con cautela, perché il terreno apparteneva ai resistenti. La tattica cambiò: non più conquistare, ma bruciare. Case dopo casa, muro dopo muro, Varsavia veniva ridotta in cenere. Eppure gli ebrei resistettero quasi un mese. Nei sotterranei, Mordecai Anielewicz, giovane comandante della rivolta, guidava i suoi con una calma che era già leggenda. L’8 maggio i tedeschi presero il suo bunker. Anielewicz e i suoi si tolsero la vita. Non volevano il disonore della cattura. La battaglia continuò a singhiozzo, fino al 16 maggio. Allora le ultime armi tacquero. Ventotto giorni. Contro i carri armati, contro le fiamme, contro la morte. Le cifre sono incerte: forse centinaia i tedeschi caduti, migliaia gli ebrei massacrati. Ma le cifre qui valgono poco. Resta la sentenza che il generale delle SS Jürgen Stroop scrisse nel suo rapporto finale: “Il ghetto di Varsavia non c’è più”.