
C’è una domanda che bisogna porsi senza retorica: davvero paralizzare una stazione, fermare un aeroporto, incendiare un cassonetto o distruggere la vetrina di un negozio può portare un grammo di sollievo in più a Gaza o piegare le scelte di un altro Stato? Il gesto eclatante può certamente attirare le telecamere e alimentare l’adrenalina di chi lo compie, ma il risultato pratico è quasi sempre l’opposto di quello proclamato. I blocchi e le barricate interrompono servizi essenziali, rallentano chi deve lavorare, colpiscono commercianti e pendolari e aumentano la rabbia sociale dentro i nostri quartieri; trasformano la protesta in un costo immediato e tangibile per gli stessi cittadini che si vorrebbero “difendere”. La solidarietà che degenera in sabotaggio si riduce a una declamazione simbolica che non scalfisce gli equilibri diplomatici né apre corridoi umanitari, ma produce ferite concrete nella vita quotidiana degli italiani. Se l’obiettivo è davvero aiutare chi soffre, vale la pena chiedersi se il mezzo scelto non stia invece neutralizzando ogni possibile effetto utile.
Le parole di Crosetto e il senso della protesta
“La solidarietà con il popolo palestinese si fa lavorando per spegnere il fuoco a Gaza e non certo per appiccarlo nelle città italiane”, ha detto il ministro della Difesa Guido Crosetto, integrando un tema politico con un richiamo alla responsabilità civica. Le parole del ministro non vogliono zittire il dolore o la protesta civile, ma indicare che esistono limiti oltre i quali l’azione di piazza diventa controproducente. Manifestare è un diritto; trasformare la protesta in violenza è una scelta che spesso svuota il messaggio politico, allontanando opinioni, consenso e percorsi concreti di pressione istituzionale. In un sistema democratico, la potenza della voce pubblica si misura anche nella sua capacità di dialogare con le istituzioni, o comunque di costruire pressione che possa tradursi in scelte politiche effettive, non in gesti dirompenti che restano solo cronaca di disordine.
La politica estera si decide nei palazzi, nelle ambasciate, sui tavoli delle mediazioni internazionali, nelle riunioni multilaterali e nelle sponde diplomatiche che si tessono nel tempo; non si cambia a colpi di fumo sui binari. Per quanto indignata possa essere una comunità, la più efficace forma di intervento sul piano internazionale è il lavoro paziente e costante, la costruzione di alleanze, la proposta di alternative concrete come corridoi umanitari, sanzioni mirate, missioni di osservazione o percorsi negoziali che coinvolgano attori capaci di esercitare pressione reale. La teatralità mediatica può ottenere qualche risultato in termini di visibilità, ma raramente si traduce in leva geopolitica. Chi vuole che l’Italia conti davvero deve impegnarsi a trasformare l’indignazione in iniziativa politica: petizioni che accompagnino dossier, pressioni su deputati e governi, campagne internazionali coordinate con ONG e istituzioni — tutto ciò che mette pressione dove si decidono i destini, non dove si rompono i vetri.
Il prezzo pagato dagli italiani
Nel frattempo, il prezzo immediato di queste azioni lo paga il Paese: lavoratori che perdono ore di stipendio, imprese che vedono crollare vendite e fiducia, studenti che non arrivano all’esame, ambulanze rallentate, quotidianità compromessa. Questo bilancio è politico: indebolisce la capacità di costruire una maggioranza o una narrazione pubblica che sostenga iniziative a favore dei civili palestinesi. Quando la protesta si trasforma in danno collettivo, viene indebolita la vulnerabilità morale che dovrebbe suscitare l’urgenza umanitaria; chi guarda da fuori vede non solo la causa ma anche il costo interno, e spesso reagisce difendendo l’ordine più che ascoltando la ragione della protesta. È un paradosso che sposta il centro del dibattito: da chi soffre all’interno del conflitto a chi subisce le conseguenze qui, in patria.
Conviene allora interrogarsi sulle strategie: perdere una giornata di lavoro per bloccare un treno è più utile di organizzare una pressione legislativa mirata? Bloccare un porto aiuta più di promuovere corridoi umanitari con partner europei? La risposta non è scontata, ma la pratica dimostra che le azioni che durano — quelle che costruiscono consenso e strumenti politici — sono quelle che poi possono incidere. La politica estera richiede pazienza e alleanze; la solidarietà efficace richiede organizzazione, proposte concrete e la capacità di mettere sotto pressione chi può davvero intervenire, non di esasperare chi abita accanto a noi.
Chi ama la causa palestinese dovrebbe chiedersi se vuole davvero che quella causa diventi una bandiera condivisa o un elemento di divisione interna. La storia politica insegna che le grandi trasformazioni nascono quando le istanze civili trovano canali istituzionali e alleanze internazionali, non quando si consumano in atti di rottura che isolano chi li compie. Se l’obiettivo è aiutare le vittime, allora la coerenza tra mezzo e fine diventa non un dettaglio, ma la condizione stessa della possibilità di riuscita.