
Nel 1866 Firenze era da poco capitale del Regno d’Italia. Il sogno dell’unità non era ancora compiuto: restava il Veneto, ancora in mano austriaca. Per la terza volta, l’Italia si preparava alla guerra d’indipendenza. Era la prova decisiva, quella che avrebbe dovuto cancellare le umiliazioni del passato e consacrare il giovane Regno. Sul campo, i numeri promettevano bene. L’Italia schierava duecentoventimila uomini, agli ordini di Alfonso La Marmora e Enrico Cialdini, quest’ultimo già noto per il ruolo avuto nell’assedio di Gaeta. Dall’altra parte, l’Austria dell’imperatore Francesco Giuseppe non poteva opporre più di settantacinquemila soldati: era impegnata anche sul fronte prussiano, e dunque indebolita. Eppure, non bastò. Il 23 giugno, La Marmora, convinto che il nemico si fosse rinchiuso nelle fortezze del Quadrilatero – Verona, Mantova, Peschiera, Legnago – mosse le sue truppe senza una strategia precisa. Ma il comandante austriaco, l’Arciduca Alberto d’Asburgo, lo precedette: aveva raccolto i suoi uomini a Custoza. Lì, il 24 giugno, l’esercito italiano venne colto di sorpresa. Ordini confusi, mancanza di coordinamento, nervi spezzati: la battaglia si trasformò in una disfatta. Le truppe di La Marmora si ritirarono nel caos oltre il Mincio, lasciando dietro di sé solo disordine e recriminazioni. Invece di analizzare gli errori, i due generali cominciarono a scambiarsi accuse. E mentre in Italia si perdeva tempo e dignità, al nord i prussiani di von Moltke infliggevano agli austriaci la rovinosa sconfitta di Sadowa. In poche ore, la guerra era decisa. L’Italia, reduce da Custoza, appariva più che mai l’alleato debole. Eppure a Firenze si continuava a sperare in una vittoria da far pesare ai tavoli della pace.

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La flotta che affondò sé stessa
Se sulla terraferma i generali avevano mostrato tutti i loro limiti, sul mare non andò meglio. Anzi, fu peggio. Perché in mare l’Italia partiva in netto vantaggio. La flotta italiana, guidata dall’ammiraglio Carlo Persano, disponeva di dodici corazzate moderne. L’Austria, agli ordini di Wilhelm von Tegetthoff, ne aveva appena sette, e inferiori. Era l’occasione perfetta per riscattare la sconfitta di Custoza. Ma Persano esitò. Rimase settimane intere ad Ancona, immobile, indeciso, sordo ai telegrammi incalzanti del ministro della Marina, Agostino Depretis. Fu quest’ultimo, alla fine, a recarsi di persona ad Ancona per obbligare la flotta a muoversi. Non bastò a risollevare la situazione. Le navi uscirono senza un piano, senza coordinamento. E anche in mare, come già a Custoza, l’Italia rinunciò all’unico vantaggio che aveva: la superiorità numerica. Il 20 luglio 1866, presso l’isola di Lissa, la flotta italiana si trovò allo sbaraglio. Le corazzate arrivarono alla spicciolata, confuse, disordinate. Tegetthoff invece colpì compatto, in formazione stretta. In meno di un’ora, l’ammiraglia Re d’Italia e la corazzata Palestro furono affondate. Persano non seppe reagire: ordinò la ritirata, lasciando il mare in mano al nemico. Il giorno dopo, trionfante, Tegetthoff scrisse ai suoi uomini una frase destinata a restare celebre: «Uomini di ferro su navi di legno hanno vinto uomini di legno su navi di ferro». Una sentenza che fotografava senza pietà la debolezza di un Regno incapace di trasformare le sue forze in vittoria.
Mentana: il sogno infranto di Roma
Nonostante le disfatte di Custoza e Lissa, l’Italia portò comunque a casa il Veneto. Non per merito proprio, ma grazie alla vittoria prussiana. La pace di Vienna del 3 ottobre 1866, firmata sotto la mediazione francese, consegnò la regione all’Italia. Era un passo avanti, certo. Ma ottenuto più per fortuna che per valore. Eppure l’opinione pubblica non era paga. Il Veneto non bastava: ora gli occhi degli italiani si puntavano su Roma. La città del Papa continuava a restare un corpo estraneo, protetto dalle baionette francesi. Garibaldi, come sempre, fu l’uomo che raccolse questo fremito popolare. Nell’ottobre 1867 radunò ottomila volontari e puntò su Roma, convinto che i cittadini si sarebbero sollevati al suo arrivo. Il Papa, però, non stava a guardare. Avvertì Napoleone III, che inviò subito un corpo di spedizione in Italia. Nel frattempo, le truppe pontificie bloccarono un piccolo gruppo garibaldino a Villa Glori, impedendo ogni tentativo di rivolta. Poi arrivarono i francesi. Il 3 novembre 1867, a Mentana, i volontari di Garibaldi furono travolti. I francesi combattevano con i nuovi fucili a retrocarica, micidiali. I garibaldini cadevano a centinaia. Eppure Garibaldi non si arrese: caricò più volte, gridando ai suoi: «Mi lascerete andar solo?». Mille uomini rimasero sul campo, tra morti e feriti. La stampa italiana insorse. Contro il Papa, contro i francesi, contro il destino crudele che sembrava sempre umiliare il Regno appena nato. I giornali scrissero frasi di fuoco: «La storia vendicherà i duemila di Mentana, caduti contro il più tristo dei tiranni: il tiranno sacerdotale».