
Lo sciopero di oggi non ha nulla a che vedere con le fabbriche, con i salari, con le pensioni. Non riguarda la sanità, i trasporti o la scuola, se non come vittime collaterali di una paralisi nazionale. È stato proclamato dai sindacati come gesto di protesta contro un paese straniero, trasformando lo strumento più forte e drammatico del mondo del lavoro in un’arma puramente simbolica, che non produce alcun effetto reale se non quello di bloccare l’Italia. Il risultato è un Paese fermo per ore, con cittadini esasperati, pendolari costretti a riorganizzare la giornata, treni e bus cancellati, voli a rischio, lezioni saltate, visite mediche rinviate. Un sacrificio enorme, imposto a milioni di persone, senza che la piazza possa minimamente incidere sugli equilibri internazionali che dichiara di voler influenzare.
La mobilitazione di oggi è sembrata più un atto politico che una battaglia sociale. Non c’è stata rivendicazione su contratti, pensioni, lavoro stabile o costo della vita, né richieste concrete al governo o alle imprese. La piazza si è riempita di slogan e bandiere, ma il messaggio che esce è lontano dalle preoccupazioni quotidiane dei lavoratori. Non ferma guerre, non cambia strategie militari, non smuove i tavoli della diplomazia. È, piuttosto, una passerella ideologica, utile a farsi vedere e a marcare posizioni, ma sterile nei risultati. Non è un caso che la Commissione di garanzia l’abbia bollata come illegittima e che il governo abbia parlato apertamente di un gesto di facciata: difficile darle torto.
Ed è qui che emerge la contraddizione più evidente. Non si è mai vista una manifestazione unitaria né tantomeno uno sciopero generale contro l’invasione russa in Ucraina. Landini non pervenuto. Figuriamoci Conte. Quando Putin ha bombardato Kiev, quando milioni di profughi hanno attraversato i confini europei, quando le famiglie italiane hanno dovuto affrontare il rincaro delle bollette e la crisi energetica, i sindacati non hanno fermato il Paese. Nessun blocco dei trasporti, nessuna giornata di protesta nazionale, nessuna piazza riempita in nome della pace. Oggi invece sì, con cortei e striscioni per Gaza. Una scelta che rivela un doppio standard evidente: si scende in strada per una causa, se ne ignora un’altra ben più vicina, che ha inciso direttamente sulla vita degli italiani. Non è questione di geografia, ma di ideologia.
Ed è proprio l’ideologia a dominare questa protesta. In piazza non mancheranno gli slogan contro Israele, accusato non solo di errori e scelte politiche sbagliate, ma addirittura del peccato originale di esistere. Tra le bandiere della pace si mescolano inevitabilmente quelle di chi contesta a Israele il diritto stesso di sopravvivere come Stato, di chi considera la tragedia del 7 ottobre un dettaglio secondario e di chi vede nell’antisemitismo una legittima forma di rivalsa politica. E non è difficile immaginare che negli stessi cortei ci sarà anche chi simpatizza per regimi autoritari e applaude ogni forma di violenza purché sia diretta contro l’Occidente. Una miscela pericolosa, che trasforma la protesta in un minestrone ideologico dove tutto si tiene tranne i diritti dei lavoratori.
Alla fine resta la sensazione che lo sciopero generale sia stato piegato a una funzione diversa da quella per cui è nato. Lo sciopero, nella storia, è stato lo strumento massimo di difesa dei più deboli, l’arma per alzare la voce contro ingiustizie tangibili e concrete. Era l’ultima risorsa per rivendicare un contratto, per difendere una fabbrica, per impedire un licenziamento. Oggi invece viene usato come megafono di battaglie internazionali su cui l’Italia non ha alcun potere diretto, riducendo lo strumento più forte della rappresentanza sociale a un corteo simbolico che lascia il Paese fermo e il mondo indifferente.
Ecco perché questo sciopero è inutile. Non serve a Gaza, non serve ai lavoratori, non serve all’Italia. È un atto che si esaurisce nel rumore della piazza, senza conseguenze sul piano politico, economico o internazionale. Alla fine, resta solo la fotografia di un’Italia bloccata per niente: la definizione perfetta di uno sciopero che non lascia traccia, se non quella della sua inutilità.